sabato 7 ottobre 2017

Un manigoldo per genero - 4° puntata - di Ambra Tonnarelli



Alex lanciò spazientito una veloce occhiata al di là delle sbarre così, giusto per ingannar la noia, sospirando nervosamente. Il commissario Reeves riusciva sempre ad arrivare, come da copione, puntuale come un orologio svizzero a mettergli i bastoni tra le ruote e a rovinargli i piani. Alex non era mai stato un ragazzo abituato a programmarsi le giornate, ma nonostante tutto, non si sapeva come, riusciva sempre a portare a termine tutti i doveri e i piaceri, che voleva svolgere. Era uno abituato a vivere alla giornata, come si suol dire, incastrando gli impegni a seconda di come la vita glieli presentava di volta in volta. Ma quel giorno no. Quel giorno l’aveva programmato, se così si può dire. Aveva programmato di star fuori fino a sera alla ricerca di Elizabeth e, come al solito, Reeves era arrivato giusto in tempo a distruggergli i piani. Non sopportava Reeves, quell’uomo dal cuore di pietra tutto regole e niente vita, che da un po’ cercava in tutti i modi di rimetterlo sulla retta via. Con le buone e con le cattive. Forse più con le cattive, che con le buone. E nessuno poteva dire ad Alex cosa fare. Odiava Reeves. O forse no. Da una parte, non poteva negare che gli facesse una gran pena. Sempre vige al dovere, sempre schiavo dei suoi principi all’antica, sempre angustiato col mondo intero, sempre austero... Da una parte, Alex provava una gran pena per Reeves, perché a suo dire non sapeva vivere. Anche se doveva ammettere che era davvero un gran rompiscatole. Nonostante Alex facesse del suo meglio per fargli capire che egli non sarebbe mai stato in grado di cambiarlo, Reeves perseverava nel dargli la caccia, ogni volta sempre più snervato della precedente. Quei due proprio non si potevano soffrire. Reeves lo dimostrava tramite le sue sfuriate e le punizioni legali, Alex con il suo innato senso dell’umorismo denigratorio, alle volte anche irritantemente offensivo. In due parole, non faceva altro che prendersi gioco di lui e deriderlo. E lo avrebbe fatto anche in quell’occasione. Non poteva stare lì, ad attendere l’ennesima sgridata del giudice, mentre Elizabeth sempre più diventava evanescente. Più tempo passava, meno possibilità avrebbe avuto con lei. Da come gli aveva parlato Lucy, Elizabeth doveva essere traumatizzata e sotto shock per l’alzata di testa che aveva commesso e convincere una dolce fatina traumatizzata come lei a tornare sui propri passi si sarebbe rivelata un’impresa piuttosto ardua. Questo era certo. Ma più avrebbe aspettato, peggio sarebbe stato. Perché oltre al trauma, che sempre più si sarebbe radicato in lei, si sarebbe aggiunto anche il fattore tempo, che avrebbe solo aumentato la distanza tra loro. Alex sapeva meglio di chiunque altro che il vecchio detto riguardante il tempo in grado di lenire ogni ferita era solo una stupida balla, inventata da chi, di sofferenze, non ne aveva mai avute. Il tempo può offuscare i ricordi, annebbiare la mente, ma non lenire il dolore. Esso non sparisce. Mai. Neanche dopo anni. E’ solo un’illusione. La strana sensazione di benessere e serenità che si prova a distanza di decenni è solo un’effimera e ben mascherata illusione. Perché il dolore resta nell’inconscio, sepolto da strati di tempo, pronto a esplodere in ogni momento. Rimane lì, a tormentarci come un tarlo, anche se non ce ne accorgiamo. Gli spettri non se ne vanno mai. L’unica cosa da fare è accettarlo e imparare a conviverci. Solo l’accettazione più è in grado di rendere la sofferenza più sopportabile. E Alex, questo, lo sapeva meglio di chiunque altro. Lo aveva vissuto sulla sua pelle. Per questo non aveva tempo da perdere con Elizabeth. Doveva uscire di lì. Avrebbe dovuto far appello a tutto il suo carisma trascinatore e denigratorio, a tutto il suo innato senso dell’umorismo e a ogni goccia d’irriverenza che possedeva.
Doveva uscire di lì. Subito.
“Insomma, cos’è questa merda? Il pranzo fa schifo, proprio come la colazione! Qui ci trattano peggio delle bestie da macello!” se ne uscì all’improvviso Alex stizzito, rivolgendosi ai compagni di cella e agli altri detenuti nelle gabbie vicine e spezzando il gravoso silenzio che era piombato poco prima, durante l’arrivo del pranzo.
Non era la prima volta che Alex finiva dentro: cacciarsi nei guai stava diventando quasi un lavoro per lui. Ormai era abituato a qualche giorno di carcere, al letto e al cibo che forse tanto male neanche erano. Ma non aveva tempo da perdere lì dentro, no. Non quel giorno.
“Già, non me ne parlare! Com’è che ti chiami? Alex, hai detto?” gli rispose uno dei compagni di cella.
“Sì, esatto! Mi chiamo Alex e sono stufo di questa merda di cibo e di quella merda di letto!”
“Pensa a noi, che ci dobbiamo stare anni! Almeno tu tra qualche giorno sei fuori!” intervenne un altro nella cella accanto.
“E allora? Vi fate trattare così, voi? Noi ci dobbiamo ribellare! E far valere i nostri diritti come esseri umani, qui dentro!”
Tutti i detenuti iniziarono a borbottare frasi riguardo a quanto quel ragazzo avesse ragione e ad annuire con la testa.
“Ehi tu! Piantala un po’, lì dentro!” gli intimò la guardia, avendolo sentito e avendo fiutato il pericolo “rivolta in corso.”
“Piantarla? Non ci penso nemmeno! Qui siamo trattati peggio delle bestie! Vogliamo la stampa! Vi mettiamo sul giornale, se non ci date cibo e letto decenti, più la connessione internet e la tv satellitare! E più tempo all’aperto! E anche più attività per divertirci! Faremo lo sciopero della fame, della sete e del sonno se necessario!”
Un grido collettivo di “Sì, ha ragione!” si levò dalla voce di ogni detenuto.
“Ma a te che cosa importa? Se ti pagano la cauzione, potresti uscire anche oggi!” tentò di convincerlo la guardia dal caratterino debole.
Ma ad Alex non importava nulla della cauzione. Chi mai gliel’avrebbe pagata? Nessuno, come sempre del resto! Da solo, senza famiglia, dimenticato dal mondo, con degli amici sbandati come lui, che nonostante il grande affetto reciproco, non avevano un soldo per tirar fuori dai guai nemmeno loro stessi, figuriamoci per salvare qualcun altro!
“E’ vero, ma a loro chi ci pensa? Questa si chiama solidarietà tra amici e colleghi! Vogliamo la stampa! Vogliamo la stampa!” iniziò a gridare Alex a mo’ di slogan.
E con lui, si alzò il coro: tutti insieme a gridare a mo’ di slogan: “Vogliamo la stampa! Vogliamo la stampa!”
L’inesperta guardia novellina scappò nell’altro ufficio a gambe levate, non sapendo come gestire la situazione. Afferrò caoticamente il telefono col respiro affannoso e il sudore freddo, mentre a stento riusciva a comporre il numero. Un imbranato in preda al panico.
“Pronto? Sono l’agente Donalds, passatemi il commissario Reeves per favore!”
I secondi di attesa sembravano non finire mai. E il fracasso nelle celle di là aumentava sonoramente.
“Commissario Reeves. Chi parla?” rispose fermo e deciso Albert.
La guardia tirò un sospiro di sollievo, quando udì la voce di Mr. Autorità in persona dall’altra parte del telefono.
“Buongiorno Commissario! Sono l’agente Donalds, dell’area di detenzione. Abbiamo un problema, un grosso problema qui, Commissario. C’è quell’Alex che sta fomentando una rivolta contro di noi!” gli spiegò agitato e in preda all’ansia.
“Come prego?” domandò Albert, come se volesse essere certo di aver capito bene, non credendo alle proprie orecchie.
“Ha coinvolto tutti i detenuti, convincendoli che il cibo è cattivo, che il letto è scomodo, che vengono trattati peggio delle bestie... Chiedono della stampa e minacciano di fare scioperi della fame, della sete e del sonno, Commissario! Senta che roba!” esclamò, allungando il telefono verso la porta per fargli ascoltare il baccano plasmato da Alex Tennence in persona.
“Vogliamo la stampa! Vogliamo la stampa! Vogliamo la stampa! Vogliamo la stampa!” gridavano a gran voce i detenuti, sbattendo posate e bicchieri contro le sbarre.
Albert rimase inorridito e il suo volto mutò di nuovo colore, diventando rosso paonazzo. Il casino che stava combinando Alex era incredibilmente troppo per i suoi rigidi nervi da uomo tutto d’un pezzo. Urla e schiamazzi, accompagnati dallo sbattere di oggetti contro le sbarre, raggiunsero l’altro capo del telefono, andando ancora di più ad alterare il delicato equilibrio emotivo di Albert. Delicato solo quando c’era Alex Tennence nei paraggi. Quell’Alex!
“Va bene, va bene! Adesso basta! Prendi quell’Alex e sbattilo fuori! Non lo sopporto più!” gridò il commissario Reeves con gli occhi fuori dalle orbite dall’esasperazione. Di nuovo.
“Ma Commissario! Nessuno gli ha pagato la cauzione! Non possiamo rilasciarlo così!” si lagnò Donalds, aspettandosi una decisione più legale e autoritaria.
“Me ne frego, della cauzione! Alle faccende burocratiche, ci penso io! Farò figurare che c’è stato un errore! Ora te lo ripeto per l’ultima volta: prendi quell’Alex e sbattilo fuori!” gridò furibondo e sempre più paonazzo.
“D’accordo! Va bene, Commissario! Ai suoi ordini!” obbedì Donalds.
L’agente cercò di assumere un aspetto più autoritario possibile e tornò nell’area detenzione. “Silenzio!” intimò. “Allora Alex, prendi le tue cose e vattene!” ordinò, aprendogli la cella.
“Ah. Grazie mille! Posso fare una telefonata su al distretto?” gli domandò con un soddisfatto sorrisetto di scherno stampato in volto.
“Va bene, va bene! Basta che poi te ne vai!” gli rispose la guardia, stizzita ed esasperata, conducendolo nel suo ufficio. Cominciava finalmente a comprendere le ragioni di Reeves riguardo quel combinaguai rompiscatole.
“Commissario Reeves. Chi parla?” domandò Albert, sperando che fosse l’agente Donalds, che gli portava buone notizie.
“Salve Capo!” esclamò Alex, contento a modo suo di sentirlo.
“Ancora tu? Che vuoi?” gridò Albert, non essendo proprio la persona che avrebbe voluto sentire. Sempre quell’Alex dei suoi stivali tra i piedi! Ma che cosa voleva da lui? Che cosa aveva fatto di tanto male nella vita per dover sopportare quella maledetta piaga?
“Grazie Capo! Lo sapevo, che sarebbe stato comprensivo!” esclamò Alex a tutte corde vocali col suo solito tono di scherno, col solo scopo di farlo innervosire di più.
“Ma quale comprensivo e comprensivo? Levati dalle scatole!” gridò, sbattendogli il telefono in faccia.
“Ma tu guarda quell’Alex! Anche cose contro la legge mi fa fare! A me, che sono il custode della legge!” protestò Albert, tirandosi i capelli e stropicciandosi gli occhi. Prese a massaggiarsi le tempie nella speranza di attutire il pesante mal di testa che quell’Alex dei suoi stivali, che quel manigoldo gli aveva causato. La sua snervante irriverenza era altamente irritante, a tal punto da condurlo a compiere gesti contro la stessa legge che lui venerava ogni giorno, a cui lui aveva dedicato la propria vita, a cui ogni giorno riservava tutta la sua dedizione.
Nella zona detenuti, intanto, la ribellione fu presto domata: senza il carisma di Alex, nessun detenuto tenne testa alle minacce di ulteriore reclusione delle guardie, minacce di cui Alex si sarebbe altamente fregato. Il ragazzo si diresse verso la sua auto scalcagnata e semi-distrutta con un ghigno di sadica soddisfazione in volto. Soddisfatto sì, ma anche arrabbiato e seccato.
“Che pizze!” si lamentò tra sé e sé, mentre si metteva al volante. “Ora ci mancava solo quel rompiscatole del capo a farmi perdere tempo! E io devo ancora trovare Elizabeth, maledizione!”
E a tutto gas, si diresse verso casa a far visita a Google. Accese alla svelta il computer rischiando anche di farlo impallare e iniziò a cercare “scuole e compagnie di danza a Los Angeles.” Una fila infinita di nomi gli comparve sullo schermo.
“Inizierò dalla più importante. Dunque questa qui al centro della città! Vediamo un po’... Bingo!” esclamò infine vittorioso, contento di averci messo molto meno del previsto, praticamente niente. Sulla home page del sito della compagnia, la locandina pubblicitaria di un balletto a teatro con la foto di Elizabeth e un ragazzo mentre eseguivano una figura di danza classica.
“E’ la prima ballerina! Accidenti! Ecco perché è così brava! Bene, me ne andrò a teatro a prendere i biglietti e l’aspetterò all’uscita del teatro a fine spettacolo. Non si dica che una ragazza sia sfuggita alla corte di Alex Tennence!  Prendo la moto!” esclamò soddisfatto di sé e più determinato che mai, senza nemmeno leggere i nomi per intero sulla locandina digitale.
Scese in garage e salì in moto in fretta e furia, come al solito senza casco e schizzò via come una scheggia attraverso le strade della città.
“Ah che meraviglia!” esclamò Alex.
Adorava la sensazione di libertà che la velocità gli donava. Amava sentire il vento soffiargli con forza tra i lunghi capelli rossicci. E odiava rispettare le regole. In strada, si rivelava essere ogni volta un vero pericolo pubblico. Raramente si fermava al semaforo rosso, tanto meno quel giorno di fretta e di corsa.

“Barney! Barney!” lo chiamò Albert autoritario.
“Sì, Commissario! Eccomi! Sono qui!” si precipitò il buffo poliziotto al perentorio richiamo del suo superiore. “Abbiamo ricevuto una segnalazione in un supermercato per sospetto furto. Andiamo subito a interrogare i testimoni.”
“Agli ordini!”
Albert guidava con sicurezza e disinvoltura, ma rigorosamente rispettando ogni singolo comma del codice della strada.
“Spero che non ci sia anche quell’Alex di mezzo, Barney!” esordì Albert.
“Ma no, Commissario! Di furti, non ne ha mai commessi. La sua è un altro tipo di delinquenza. Mi levi una curiosità, Commissario. Ma se lo sogna anche di notte, questo Alex?”
Albert divenne di nuovo paonazzo. “Sì, maledizione! Sta diventando come un incubo per me, quel ragazzo! Quel suo risolino da costante presa in giro, quella sua strafottenza mi irritano assai!” urlò rosso di rabbia, sbandando.
“Commissario, non si agiti! Guidi o finiremo fuori strada!” gli consigliò Barney alquanto spaventato dalla guida distratta del suo superiore.
Alex gli mandava davvero il sangue al cervello.
“Sì, forse hai ragione, Barney. Consiglio inestimabile!”
Fu in quel momento che un razzo tagliò loro la strada. Albert frenò a secco, sbalzandosi in avanti.
“Per Giove e Saturno! Ha visto quella moto, Commissario? Ha bruciato un semaforo rosso!” commentò esterrefatto Barney.
Albert tentò nervosamente di ricomporsi. “Certo che l’ho vista, Barney! Che domande idiote fai! Se non l’avessi vista, non avrei frenato, no? Che scemo! Accendi la sirena, Barney! Partiamo all’inseguimento di quella moto!”
All’udire della sirena, la moto si fermò.
“Commissario, non ha nemmeno il casco!” gli fece notare il distratto Barney, che solo allora si era accorto dell’assenza di casco.
“Lo so, Barney. Adesso scendo e lo sistemo personalmente, quel pirata della strada”, sghignazzò Albert, sfregandosi sadicamente le mani, soddisfatto.
Albert scese in direzione della moto. “Patente e libretto di circolazione, prego! E il casco, dove l’abbiamo lasciato, eh?” esordì Albert autoritario come sempre.
“Oh no! Capo, sta cominciando a seccarmi!”
Una voce familiare e un volto altrettanto conosciuto apparvero all’improvviso davanti all’incredulo sguardo di Reeves.
Albert sgranò gli occhi quando riconobbe Alex. “Ancora tu! Non ti ho fatto rilasciare neanche un’ora fa, e tu sei già in giro a far danno! Adesso ti sistemo io! Tu vai dentro e non esci più! Avanti, scendi da quella moto!” gli intimò, paonazzo e perentorio.
Ma la strafottenza di Alex e la sua sicurezza non vennero meno. “Non mi rompa tanto le palle, eh, Capo! Io sto andando a caccia di quella ragazza e non ho tempo da perdere con lei. Ecco, tenga dieci dollari per la multa e se li faccia bastare, spilorcio! La saluto, Capo! Arrivederci!” E sgassò a tutta birra, lasciando Albert in mezzo alla strada imbambolato come un cretino.
“Non mi rompa le palle, spilorcio... A caccia di quella ragazza...” si ripeté Reeves a bassa voce. “Ancora con questa ragazza? Ma chi è questa povera disgraziata?”
“Biiiiip-biiiiip!!!!”
Un fragore assordante di clacson si levò dalla strada: un’auto stava quasi per investirlo. E nei metri a seguire che lo separavano dalla sua vettura di servizio non andò meglio. Per aria com’era, rischiò di venire investito anche altre due o tre volte.
“Commissario, non vorrei fare il guastafeste, ma mi sa che le è scappato di nuovo” incalzò maldestro Barney.
Albert lo folgorò con un’occhiataccia omicida, che lo paralizzò. “Fa’ silenzio!” gli intimò, furioso. “Mi ha detto “non mi rompa le palle!” A me!”
“Ormai dovrebbe esserci abituato! No, Commissario?”
“Chiudi il becco! Ha detto anche di star andando a caccia di quella ragazza. Avrei dovuto farmi dire chi era ieri sera, così da poter avvisare il padre. Fossi io il padre di quella povera anima innocente, lo ucciderei”, commentò Albert felice di sapere che sua figlia non avesse a che fare con nessun manigoldo, tanto meno con quell’Alex.
“Ha proprio ragione, Commissario. Che facciamo? Lo inseguiamo? Lo segnaliamo ai colleghi?”
“No, guarda, andiamo diretti al supermercato! Io non lo sopporto più, quel manigoldo! Lasciamolo perdere, altrimenti lo uccido e mi comprometto al carriera!”
E detto questo, mise in moto. Direzione supermercato.

“Un biglietto per favore!” si sbrigò a dire Alex alla cassiera del teatro.
In quei pochi attimi che servono per avere un biglietto, successe di tutto e di più.
Alex vide Elizabeth.
Cercò di nascondersi meglio che poteva tra lo sportello della biglietteria e la fila alle sue spalle. Se l’avesse visto, sarebbe stata la fine per lui. La vide scendere dalla macchina con un gran bel ragazzo, un bambolotto coi capelli scuri a caschetto dal fisico statuario. Un’inaspettata e forte gelosia crebbe esponenzialmente dentro di lui. Aveva ben capito, grazie a Lucy, che Elizabeth non usciva con nessuno, ma, ovviamente, era impossibile che non venisse corteggiata, considerata la sua elegante bellezza. Lei, che era così sofisticata e delicata, sembrava avere le sembianze di una fata uscita da una fiaba. Era alta con le gambe lunghe e slanciate, delicate, ma ben definite e potenti. Aveva il visino piccolino, dalla forma leggermente allungata, dalle labbra piccole e soffici e poi... E poi aveva quegli occhi dalla forma allungata da gatta, azzurri come e trasparenti come l’acqua, brillanti come il mare sotto il Sole.
Alex avvertì il forte impulso di picchiare quel ragazzo che era con lei in ogni istante che li vide passare e non seppe spiegarsi il perché.
“Scusi una cosa”, si rivolse poi alla cassiera. “Ma quei due laggiù sono i primi ballerini, vero?”
“Sì, esatto.”
“Però... Che bella coppia!” buttò lì Alex, sperando di sentire la risposta che il suo cuore in tormento aveva bisogno di sentire.
“Già. Però non stanno insieme, al di fuori dell’ambito artistico!” ci spettegolò su la cassiera.
Alex lo sapeva già, ma aveva davvero sentito il grande e inspiegabile bisogno di ascoltarlo con le sue orecchie. “Dicono che siano molto bravi. E che provengano dalla scuola migliore della città!” proseguì Alex, per scoprire di più sulla sua adorata, dolce fatina.
“E’ proprio così. Pensa che lei è la figlia della proprietaria della scuola e della compagnia!”
Alex rimase a bocca aperta: sul fatto che provenisse da una buona famiglia altolocata, non aveva alcun dubbio, ma mai si sarebbe immaginato fino a quel punto. “Però! Non vedo l’ora di godermi lo spettacolo!”
“Ah te lo auguro. Ecco qua il biglietto.”
“Ed ecco a lei questi. Tenga pure il resto. Arrivederci!”
La cassiera osservò curiosa quello stravagante ragazzo allontanarsi. Non aveva proprio l’idea di un ragazzo da balletto.
Alex era certo di aver completamente perso il senno: aveva appena speso gli unici suoi risparmi, gli unici contanti che aveva a disposizione per un biglietto per un balletto di danza classica.
“Ma che mi passerà per la testa, a me? Bah, che il mio santo protettore, se ce l’ho, mi dia uno sguardo, va!” pensò tra sé e sé.
Mentre risaliva in moto, rivide davanti agli occhi quel bambolotto statuario, mentre camminava con un braccio sulla spalla di Elizabeth. Gli ribollì inaspettatamente lo stomaco dalla rabbia. Quanto avrebbe voluto dirgli: “Ehi giù le mani!” Ma non poteva. Non poteva proprio o tutti i suoi sforzi di rivederla in appuntamento sarebbero stati vani. Forse però, la sua strana forma di gelosia non aveva ragion d’essere: Elizabeth non stava affatto ricambiando il dolce gesto del suo collega. Alex tirò un sospiro di sollievo, ma non fece neanche in tempo a tirar fuori dalla tasca dei jeans strappati le chiavi della moto, che si irrigidì di nuovo. Gli rivenne in mente lo sguardo basso e abbattuto di lei, che camminava quasi come per inerzia, come se fosse stata annientata da un demone sovraumano, così forte da averla sopraffatta completamente. Forse Lucy aveva ragione: Elizabeth soffriva davvero per ciò che aveva fatto con lui. Ci stava male sul serio, come se avesse fatto a sé stessa qualcosa di imperdonabile. E questo Alex glielo aveva letto nello sguardo. Gli occhi annientati di lei facevano star male anche lui, colpendolo come un pugno in pieno viso. Provò un bizzarro senso di colpa per ciò che le aveva fatto, ma con l’intelligenza di cui era dotato lo represse subito.
“Mi dispiace che ci stia così male. Ma io non potevo mica saperlo! Che ne sapevo io, che sarebbe andata a finire così? Maledizione! Bah, queste donne! Chi le capisce è bravo!” pensò tra sé e sé, mentre metteva in moto e se ne andava al punto di ritrovo con la sua band per lavorare a nuove canzoni. 



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