sabato 12 maggio 2018

UN MANIGOLDO PER GENERO - 2° STAGIONE - 18° PUNTATA - di Ambra Tonnarelli



Era trascorsa qualche settimana dalla nascita del piccolo Cody e in casa l’atmosfera era carica d’allegria. Le risa e i continui pianti tipici dei neonati risuonavano in ogni dove dell’abitazione. Alex ed Elizabeth si erano fin da subito dimostrati degni della situazione. Erano molto innamorati, molto attenti e premurosi verso il piccolo furfante, che non mancava mai di sfoderare i suoi sorrisetti da canaglia ogni qualvolta facesse i bisognini addosso a qualcuno. Soprattutto quelli solidi. E soprattutto addosso ad Albert. Era un bambino piuttosto sveglio e parecchio vivace, un Alex in miniatura in tutti i sensi. Albert era arrivato in ritardo in ufficio quella mattina, proprio perché il piccolo gli aveva fatto la pupù addosso, mentre gli faceva il bagnetto. Eppure la cosa non lo aveva infastidito, anzi. Si era rassegnato all’idea di essere diventato il bersaglio preferito per le mini-marachelle di quella piccolissima peste ancora in fasce.
“Buongiorno Commissario!” lo salutò Barney, andandogli incontro come se volesse comunicargli qualcosa.
“Buongiorno Barney. Mi scuso per il ritardo. Il bambino!”
“Ah, non avevo dubbi, Commissario. Senta, c’è qui una donna che vorrebbe parlare con lei. L’ho fatta accomodare nel suo ufficio.”
“Grazie Barney. Vado subito.”
Albert fece il suo nobile e cavalleresco ingresso nell’ufficio, mettendo in mostra tutta la professionalità e l’autorità che lo caratterizzavano.
“Buongiorno, signora. Sono il commissario Albert Reeves. Che cosa posso fare per lei?” la salutò cortese ed educato, cercando di metterla a suo agio.
“Buongiorno Commissario. Mi sono rivolta a lei perché so che questo è il distretto più grande della città. Mi chiamo Sarah Carlwright e vengo dallo stato di Washington. Sto cercando mio figlio, che se n’è andato di casa quando aveva sedici anni. Da allora non l’ho più visto, né sentito. Un suo vecchio amico d’infanzia mi ha detto che sarebbe venuto qui, a Los Angeles. E se è qui, spero di trovarlo, perché lui si è sempre messo nei guai con la legge, per reati minori. Ha una band e l’ho visto qualche giorno fa alla televisione. Sono sicura che fosse lui. Una madre queste cose le sente. Si chiama Alex Tennence.”
Albert, che fino a quel momento se ne era rimasto calmo ad ascoltare, sobbalzò dalla sedia, cadendo a terra.
“Oh mio Dio! Commissario! Si sente bene?”
Albert tentò di ricomporsi come poteva. “Alex Tennence? Quell’Alex! Certo che lo conosco! Ho perso il conto di quante volte l’ho arrestato! Lo troviamo subito! Perché abita temporaneamente a casa mia! E’ mio genero!” le annunciò Albert, ancora incredulo di avere davanti a sé la donna che aveva generato quella peste bubbonica. E pensare che era una signora così dolce, gentile e a modo!
Sarah si portò una mano al petto come se avesse ricevuto un pugno dritto al cuore, un pugno dal colpo stranamente piacevole. “Come? Scusi, Alex è suo genero?” ripeté la donna, incredula, come se quella seduta di fronte al commissario non fosse lei, ma un’altra, come se lei stesse guardando la scena dall’esterno.
“Sì, signora. Alex è sposato con mia figlia Elizabeth da quasi un anno.” Albert si sforzò di rimanere calmo e tranquillo, in modo da non agitare di più la povera donna, che assomigliava tantissimo ad Alex nell’aspetto fisico. Ora che la guardava bene, sì. Era proprio la mamma di Alex. Aveva gli stessi occhi grigioverdi, profondi ed espressivi, i capelli rossicci, ma ormai quasi privi di luce, il viso dolce, ma stanco, segnato dalla fatica e da una vita di violenze e soprusi.
“Mi scusi, Commissario, ma io proprio non riesco a capire. Mi perdoni, ma se lei ha arrestato mio figlio parecchie volte per cattiva condotta, come ha potuto permettergli di sposare sua figlia? E’ un controsenso!”
Albert sospirò e picchiettò a ritmo le mani sulle cosce in segno di rassegnazione. “Che cosa ci posso fare io, signora? Mia figlia si è innamorata, lui pure, mi hanno tenuto segreta la loro relazione per mesi con l’appoggio anche di mia moglie... Mi ha fatto saltare tutti i nervi quel ragazzo, ma io gli devo la vita. Alla fine, come tutti i miei parenti, ho finito con l’adorarlo anch’io. Vede, signora, quasi un anno fa, quando mia figlia e suo figlio erano solo fidanzati contro il mio consenso, tre delinquenti hanno aggredito me ed Elizabeth. Hanno tentato di stuprarla e purtroppo ci sarebbero riusciti se non fosse stato per Alex. E’ stato molto coraggioso. Ha protetto mia figlia in un momento in cui io ero stato messo fuori uso. Probabilmente a lui non sarebbe capitato. E’ scaltro, quel manigoldo. Da quel momento, ho capito quanto davvero amasse mia figlia e che in fondo in fondo è un bravo ragazzo. Una canaglia, insomma. Gli sono debitore. Ha salvato me e soprattutto mia figlia.”
Sarah si asciugò una lacrima dagli occhi. Era scossa e confusa. A stento credeva a ciò che aveva appena sentito. Le sembrava tutto così surreale! “Il mio Alex! Sono orgogliosa di lui, anche se è un pastrocchio!” sorrise lei.
Persino Albert abbozzò un sorriso divertito per quella battuta. Tirò un bel respiro tra i sorrisi e riprese a parlare. “E non è tutto, signora!”
“Oh, che altro può esserci ancora?”
“Beh, ecco...” farfugliò Albert, non sapendo come dirglielo. Alla fine decise di adottare il sistema alla Alex. Così, di getto. “Un bel nipotino di due mesi! Cody.”
Sarah sgranò gli occhi e si sentì mancare aria nei polmoni. “U-un n-nip-pot-tino?” balbettò. Poi svenne dall’emozione.
“Barney!” chiamò Albert. Il vecchio e fedelissimo Barney accorse immediatamente a soccorrere la donna, che si riprese nel giro di qualche minuto.
“Mi scusi, Commissario”, sussurrò poi mentre sorseggiava un bicchiere d’acqua. “L’emozione è stata troppo forte per me.”
“Lo credo bene, signora! Mi sarei preoccupato, se avesse reagito diversamente.”
“Cody, vero? Il nome del bambino.”
“Sì, signora. E’ un bellissimo bambino e somiglia, purtroppo per i miei nervi deboli, tutto ad Alex e non solo fisicamente. E’ una vera canaglia, quel marmocchio.”
Sarah sorrise intenerita. “Come vorrei conoscerlo e rivedere mio figlio!”
“Signora, io non posso portarla da Alex ora. Suo figlio è scappato di casa e ora è molto più che maggiorenne. Violerei la sua privacy, se io l’accompagnassi da lui ora. Devo parlare con lui di questo. Lei capisce, non è vero?” le spiegò Albert col cuore in mano, pregando che quella faccenda si sistemasse nel migliore dei modi.
E mica poteva essere sempre e solo lui a fare il nonno!
“Certo, sì, mi rendo conto, capisco.” La donna iniziò a farfugliare impaurita, terrorizzata dal fatto che il figlio la odiasse.
“Non si agiti, signora. Se non riesco a convincerlo io, ci riuscirà sicuramente mia figlia. Lei ripassi pure qui domani sera. Quando avrò finito il turno, se Alex avrà acconsentito, la porterò a casa con me e cenerà con noi. D’accordo?”
“Grazie, Commissario. La ringrazio con tutto il cuore.”
La donna lo abbracciò affettuosamente, gesto che Albert si stupì di ricambiare istintivamente. Non sapeva il perché, ma quella donna gli aveva fatto davvero una gran pena. Aveva letto nei suoi occhi quanto avesse sofferto e quando ancora stesse soffrendo. Era la madre di Alex. Non avrebbe potuto mai rimanere freddo e distaccato. Alex era il marito di Elizabeth e il padre di suo nipote. Faceva parte della sua famiglia. Purtroppo o per fortuna!

Alex ed Elizabeth se ne stavano tranquilli in soggiorno, ad aspettare la cena, ma soprattutto a spupazzarsi il fagotto. Era incredibile il lato paterno che stava venendo alla luce dal cuore di Alex. Era un genitore attento, affettuoso e premuroso, proprio come Elizabeth. Solo che Alex era anche un gran giocherellone.
“Buonasera a tutti!” esclamò Albert, rientrando costretto ad alzare la voce per sovrastare il baccano che faceva Alex.
“Salve Capo! Ha detto Hilary che la cena è quasi pronta!” lo accolse Alex con il piccolo Cody in braccio.
“Bene, così ho un paio di minuti per parlare con te, Alex.”
“Non ho fatto niente questa volta, Capo!” buttò subito le mani avanti Alex.
“Ah, su questa coda di paglia indagherò dopo! Comunque, sarò breve. Oggi si è presentata in commissariato, dopo mille peripezie per trovarti, tua madre.”
Alex si irrigidì di scatto, quasi spaventato, quasi arrabbiato. Elizabeth gli prese delicatamente il piccolo Cody dalle braccia, in modo che Alex potesse parlar meglio, senza spaventare anche il figlio che aveva già percepito la tensione del padre. E gli tenne sempre la mano. Sapeva bene che per Alex era un momento delicato.
“Mia... Madre? E che cosa vuole?” chiese stizzito.
“Ti ha cercato come una pazza, Alex. Vorrebbe rivederti. E’ venuta in commissariato nella piena speranza che tu fossi schedato per reati minori. E guarda caso è venuta proprio da me. Io le ho detto di te ed Elizabeth e che vi è da poco nato un bel bambino, che si chiama Cody. Allo stesso tempo, però, le ho detto che per rispetto alla tua privacy, avrei dovuto parlare con te, prima di portarla qui. Alex, è distrutta, poverina.”
“Certo, che è distrutta! Le fa comodo venire qui, dopo che mi ha visto in televisione, vero?” gridò Alex con le lacrime agli occhi.
Il suo sbalzo di voce fece piangere il piccolo. Alex si girò di scatto, maledicendosi per aver alzato in quel modo la voce. Prese Cody tra le braccia e iniziò a coccolarlo. “Piccolo mio, scusami. Non fare così. Papà non avrebbe dovuto gridare tanto”, gli sussurrò, mentre lo riempiva di teneri e paterni bacini, cullandolo.
Albert si stupì di quanto Alex fosse maturato in quei mesi, nonostante fosse rimasto la solita canaglia di sempre. Alex ripose il bimbo tra le braccia di Elizabeth e le scoccò un appassionato bacio sulle labbra. Poi riprese a parlare con Albert, questa volta con più calma e razionalità.
“Mi scusi, Capo. E’ un duro colpo per me. E’ una ferita aperta che non si è mai richiusa e che adesso ha ripreso a eruttare come la lava esplosa da un vulcano. Mia madre non mi ha mai protetto, Capo. Non ha mai fatto nulla affinché mio padre non ci picchiasse, quando si arrabbiava e rientrava a casa ubriaco. Mi è mancata la protezione e l’affetto materno da bambino e da ragazzino adolescente. Quella che io sto cercando in tutti i modi di non far mancare a mio figlio. Insieme a Elizabeth. Per me è dura, Capo.”
“Alex mi rendo conto che per te sia complicato, ma...”
“No, Capo. Io non ce la faccio.”
Elizabeth gli riprese dolcemente la mano e gli diede un tenero bacio sulla guancia. “Alex, amore mio, ascoltami. Capisco come ti senti. Sei confuso, frustrato, colmo d’ira, ti senti umiliato... Ma non è scappando che ritroverai la serenità. Tua madre è qui, adesso. E’ venuta per te. Ciò che provi tu, lo prova anche lei, così come prova rimorso per come si è comportata con te. Falla venire qui. Parlale. Chiaritevi. Non privarti di lei ancora una volta. E’ pur sempre tua madre e anche se ha dimostrato poco coraggio, ti vuole bene e te ne ha sempre voluto. E tu lo sai. Io vorrei conoscerla. Così come lei ha diritto di conoscere suo nipote. Dalle un’altra opportunità. Prima devi parlarle. Solo allora potrai decidere se volerla o meno nella tua vita.”
Alex la guardò intensamente nei suoi profondissimi occhi trasparenti, puri come l’acqua, intensi come il fuoco. Rifletté gettando il suo sguardo negli occhi di lei. Guardò dentro se stesso attraverso gli occhi di lei.
“E sia. Lo faccio solo perché me l’hai chiesto tu e perché voglio credere che tu abbia ragione sul serio. D’accordo, Capo, la porti qui a cena, domani sera”, concluse poi, tranquillo, rivolgendosi ad Albert, che annuì con un cenno della testa.
“A tavola!” li chiamò Hilary.
“EVVIVA! SI MANGIA!” gridò Alex, catapultandosi come un proiettile verso la cucina, con la ritrovata allegria di sempre, lasciando Elizabeth in soggiorno con Albert e il piccolo tra le braccia, in un mare di risate.

“Eeeeeeeh! Quant’è carino!” esclamò Edward, quando Alex portò Elizabeth e il bambino con sé allo studio di registrazione. Tutta la band si riunì intorno alla coppia per salutare come si deve il piccolo Cody, dal momento che il giorno del parto, quando avevano accompagnato Alex all’ospedale, se ne erano andati quasi subito, dopo aver visto il trambusto che stava facendo da padrone intorno a loro. “Congratulazioni!”
“Grazie ragazzi!” ricambiarono Alex ed Elizabeth.
I ragazzi della band iniziarono a spupazzarsi il marmocchio a turno, dimenticandosi per qualche istante dell’immensa mole di lavoro musicale che li stava aspettando quel pomeriggio. Il piccolo Cody sembrava proprio avere il gene del carisma di Alex. Con i suoi teneri sorrisi da canaglia conquistò tutti, persino il signor Marshall e i tecnici del suono.
“Allora ragazzi, tra quanto sarà pronto il secondo album?” si preoccupò Marshall, mentre Alex sgranocchiava uno spuntino e Edward si spupazzava il marmocchio.
“Ah, Tricheco, stia tranquillo! Abbiamo talmente tanto di quel materiale da poterne fare cento di album!
 “E’ proprio questo che mi preoccupa.”
“Non si preoccupi, Tricheco! Lasci fare a noi! Lei si riposi e si prenda una vacanza!”
Alex e la band non avrebbero chiesto di meglio di liberarsi del signor Marshall per un paio di settimane, tanto era diventato ansioso e assillante. Il troppo successo e il denaro gli stavano dando alla testa. Era come se avesse paura di perdere tutto ciò che aveva conquistato, in un attimo. Ma ciò che Marshall non aveva ancora capito era proprio il fatto che la band fosse immune dalla voracità del mercato musicale. Avevano conquistato nel profondo gli animi della gente coi loro sentiti e trasgressivi testi e le loro variate e graffianti melodie. Senza contare i pezzi lenti, di tanta dolcezza e particolarità da riuscir a far breccia in quelle zone del cuore umano che rimangono chiuse a chiunque.
“Una vacanza? Così voi vi spaparanzate e non combinate più niente!” si lamentò Marshall.
Alex, che, mentre parlava, si spupazzava di nuovo il monello, fulminò Marshall coi suo penetranti occhi grigioverdi e lo gelò. “Non lo tollero, questo atteggiamento, Tricheco. Non ci tratti come se fossimo degli scansafatiche, perché noi, qui, ci siamo fatti il culo per arrivare dove siamo e per vivere la nostra passione. Non ci fermeremo davanti a nulla. Quello che voglio dire, è che deve smetterla di assillarci e che deve lasciarci lavorare. Non sarà con la sua fretta che sforneremo un capolavoro. Me ne sbatto dell’industria musicale e dei i suoi tempi. Noi seguiamo il nostro genio artistico. Le assicuro che le idee non ci mancano e che siamo a buon punto. Ci lasci lavorare tranquilli. E si ricordi. Mai mettere fretta agli artisti, di qualunque campo essi si occupino. Mai.”
Marshall rimase trafitto dalle gelide parole di Alex, pronunciate con una tale freddezza che sembrava addirittura non appartenergli. Marshall passò in rassegna con gli occhi gli sguardi seccati della band nei suoi confronti.
“Avete ragione, ragazzi. Mi dispiace. Sono diventato troppo ossessivo. Vi lascio lavorare tranquilli. Torno più tardi.”
Marshall si alzò guardando il pavimento e se ne andò con aria mortificata e afflitta.
“Anche se è un grande rompipalle, le vogliamo sempre bene!” gli gridò Alex, quando fu sulla soglia dell’uscita.
Un sorriso fievole di tanto agognato conforto prese forma sul viso di Marshall. Le ultime parole di Alex gli avevano scaldato il cuore, come sempre del resto. Perché Alex scaldava il cuore a tutti.
“Forza, ragazzi! E’ ora di metterci al lavoro!” li spronò Alex, porgendo Cody a Elizabeth.
“Adesso, amore, guardiamo papà e i gli zietti che lavorano”, gli sussurrò nelle orecchiette.
Edward si bloccò e si voltò a guardarla. “Elizabeth, a noi fa piacere, perché quel fagotto lì è un vero amore, ma... Piange tanto?”
Alex ed Elizabeth si scambiarono un eloquentissimo sguardo e scoppiarono a ridere.
“L’unica cosa che sa fare questo marmocchio è ridere!” lo rassicurò Alex, mettendogli una mano sulla spalla.
“Bene, allora, restate pure! Forza, ragazzi! Facciamo vedere al nostro nipotino e alla sua mamma che cosa sappiamo fare!” si gasò Edward, emozionato all’idea che il figlio del suo migliore amico fosse lì.
La band lavorò serena senza Marshall che girava loro tra le scatole come un’anima in pena. Ancora una volta la sincerità e l’essere schietto di Alex li avevano ripagati. Perché la genuinità di Alex stava proprio in questo: dire sempre come la pensava, senza peli sulla lingua, anche se quanto aveva da dire non fosse stata la cosa più carina del mondo. Proprio per questa sua peculiare e rara caratteristica veniva fortemente odiato dagli ipocriti e immensamente amato da chi non gradisce la falsità. Marshall rimase stupito dalla mole di lavoro che avevano portato a termine i ragazzi senza la sua assillante presenza. Avevano fatto il doppio di quanto avevano in programma. E nessuno ne fu più felice di Marshall, che da allora cercò di contenersi e di farli lavorare di testa loro. Si era reso conto che era meglio non dar loro scadenze. Avrebbero finito prima senza far loro pressione.

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