Era già passato qualche giorno da quando Albert era stato
magistralmente imbrogliato dall’amico riccio di Alex e ancora non si capacitava
di averli visti sgusciare via dal suo stretto pugno di ferro. L’idea di essere
stato beffa di un trucchetto da quattro soldi tanto ben riuscito gli aveva
mandato il sangue al cervello. Il muso lungo e imbronciato che aveva messo su
nei giorni a seguire andava a indurire i suoi lineamenti già spigolosi e
marcati di natura, rendendolo stranamente più ridicolo che mai. Continuava a
rimproverarsi spesso per non aver voluto sapere quella fatidica sera chi fosse
la povera disgraziata che Alex si dava da fare per corteggiare, così da poter
metterla in guardia su che razza di manigoldo fosse o da avvisare il padre. Se
fosse stato lui il padre di quella povera anima candida e innocente, gli
avrebbe sparato a strombattuto e a vista, senza pensarci due volte. Gli avrebbe
fatto passare lui la voglia di molestare sua figlia. Ma, per fortuna, non era
lui il padre di quella povera anima candida e innocente. Poteva dormire sonni
tranquilli. Elizabeth era ben educata, istruita e al sicuro dalle grinfie
delinquentesche di quel manigoldo incallito. Un sereno e soddisfatto sorrisetto
curvò la sua bocca verso l’alto, mentre la pace perpetua gli invadeva l’anima.
Sua figlia... Era al sicuro da quell’Alex dei suoi stivali. Non aveva di certo
nulla da temere.
“Permesso, Commissario?” lo interruppe una voce.
Albert alzò di sobbalzo la testa dal rapporto che stava finendo di
ricontrollare, tra un pensiero e l’altro.
“Buongiorno, agente Tasher. Prego, che cosa succede?”
“Eh beh... Che succede? Succede che c’è il solito Alex, Commissario!
Che cosa vuole che succeda?” se ne uscì retorico il buon collega Tasher.
“Il solito Alex? Oh no! E’ una persecuzione, una punizione divina!
Forse ho qualche grave peccato da scontare, di cui non mi rendo conto! Oh mio
Dio! Che cosa ha combinato questa volta, il manigoldo?” si disperò Albert
esasperato, già sull’orlo di una brutta e pesante crisi di nervi.
“Rissa, Commissario. Rissa! Li abbiamo arrestati tutti, ma quell’Alex
insiste per voler parlare solo con lei!” spiegò Tasher.
“Mi vuole imbrogliare, come al solito!”
“Che faccio, Commissario? Lo faccio entrare?”
“Fallo passare! Sono proprio curioso di vedere come tenterà di
imbrogliarmi questa volta!” accettò Albert, sfregandosi le mani, speranzoso di
poter sbatterlo dentro una volta per tutte e di buttar via la chiave.
L’agente di polizia si scansò per far passare i due colleghi che
scortavano Alex, con tanto di manette ai polsi, verso la sedia di Reeves. Il
fedelissimo Barney, sempre al fianco destro di Albert come testimone oculare
della deposizione del ragazzo.
“Salve Capo! Come andiamo?” salutò il birichino col suo solito sorriso
di scherno in volto.
“Male, perché sei sempre qui! Che cosa vuoi da me?” s’irritò Albert.
Di già.
“Capo, io non c’entro niente con questa rissa! Non ho alzato un dito!”
spiegò Alex.
“E chi ti crede?” sbuffò Albert sarcastico.
“Capo, c’è un errore! Io stavo solo trascinando via il mio amico!”
“Bene, dovrai dimostrarlo! Fino ad allora, sarai sotto accusa e in
stato di fermo!”
“Interroghi gli altri coinvolti, Capo! Vedrà che è come le dico io!
Perciò, le conviene risparmiare tempo e voce, e lasciarmi andare”, suggerì Alex
col suo solito risolino di scherno stampato in volto.
“Lasciarti andare? Ma come ci pensi?”
“Tanto io non c’entrooooo! Se lo ficchi bene in quella testaccia di
legno, Capo! Io non c’entro!” lo sfidò Alex, cantilenando un po’.
“Testaccia di legno? Faccio finta di non aver sentito, altrimenti ti
aggiungo anche l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale!”
“Che stronzo!” sbuffò Alex, sfidandolo nuovamente. “Non ha il senso
dell’umorismo, Capo!”
Albert spezzò l’ennesima matita in due per l’offesa subita.
“Commissario! Si calmi! Si ricordi che soffre di pressione alta!”
intervenne Barney, avendo intuito il pericolo “esplosione commissario” in
arrivo.
Ma peggiorò solo la situazione del crollo nervoso del suo superiore.
“Sta’ zitto, Barney! Continui sempre a parlare! Parli, parli, parli a
vuoto!”
“Ma Commissario! Ultimamente si è sempre avverato tutto quello che ho
detto!” protestò Barney, piagnucolando, stanco di essere sempre il capro
espiatorio, la vittima sacrificale per le sfuriate pazze di Reeves.
“Appunto! Mi porti anche sfortuna! Chiudi il becco o mi farai venire
un infarto, uccellaccio del malaugurio!” gridò Albert, mentre lanciava il
portapenne al suo collega.
Alex, che nel frattempo non aveva fatto altro che godersela e
sghignazzare sotto i baffi con aria alquanto sadica e soddisfatta, sfilò un
cellulare ben nascosto dal calzino sulla caviglia, un cellulare di cui tutti
ignoravano l’esistenza e scattò furtivamente una foto al commissario fuori di
nervi, rosso di rabbia, mentre lanciava il portapenne a un Barney sconvolto,
impaurito e mortificato, il quale non fu abbastanza agile da schivare il colpo.
Si chinò in fretta e furia col capo dolorante per la botta a raccogliere penne
e matite.
“Ora, tornando a noi...” riprese Albert, tornando a rivolgersi ad
Alex, ma un delicato toc-toc lo interruppe.
Albert perse di nuovo le staffe e scattò come una molla compressa fino
allo sfinimento. “Sì? Chi è adesso che mi rompe le scatole? Sto lavorando,
insomma!”
La porticina del suo ufficio si aprì timidamente e ne sbucò una figura
leggiadra ed elegantemente delicata. “Ciao papà”, lo salutò timorosa Elizabeth.
“Oh, Elizabeth! Sei tu”, si calmò di colpo Albert, come se
l’inaspettata e improvvisa comparsa della figlia avesse agito come il più
potente dei tranquillanti sulla sua anima dannatamente furibonda e in fiamme.
“Papà, ma che succede? Si sentono le tue urla fino all’ingresso del
commissariato! Comunque, ti ho portato questi documenti che stamattina ti sei
dimenticato a ca... Alex? Ehi! Ma tu che ci fai qui?” si lasciò sfuggire,
quando lo vide, tra un misto incontrollato di sorpresa e gioia di vederlo,
anche se forse il luogo non era dei migliori. Né dei più opportuni.
Albert si alzò di scatto in piedi sulla sedia come se avesse avuto un
tappeto elastico chiodato sotto il sedere.
“Guarda, Elizabeth, questa volta non c’entro proprio niente! Tuo padre
ha preso un bel granchio!”
Albert si allontanò dalla scrivania frapponendosi tra i due. Fissò
Alex poi la figlia, poi di nuovo Alex e di nuovo la figlia, facendo scorrere rapido
il suo stupito e interrogativo sguardo sospettoso e indagatore tra i due per
diversi secondi, prima di posarlo negli occhi acquatici della figlia, che stava
disperatamente tentando di mantenere la calma e di rimanere il più disinvolta
possibile. Ma come aveva potuto commettere una tale leggerezza e salutare così
confidenzialmente Alex alla stazione di polizia, per giunta nell’ufficio di suo
padre?
“Lo hai chiamato per nome? Che cos’è tutta questa confidenza da parte
di entrambi? Allora vi conoscete!” se ne uscì Albert finalmente, dopo lunghi
attimi di tensione.
Elizabeth prese un bel respiro, sperando di riuscire a improvvisare
una balla molto più che decente e convincente, ma quel respiro le morì in gola.
Alex la precedette per un istante e fu lui a parlare per primo, facendo così
scattare lo sguardo tagliente e fulminante di Albert verso di lui. Gli occhi
ridotti a due fessurine velenose, pronte a far fuoco e a disintegrarlo lì, su
due piedi.
“Su via, Capo! Non la faccia tanto lunga! Un paio di giorni fa passavo
per il centro e ho incrociato sua figlia che andava alle prove. Aveva il
borsone che pesava più di lei, così mi sono offerto di portarglielo fino a
scuola!”
Albert sembrò poco convinto, alzò un dito per parlare, ma Elizabeth lo
interruppe di nuovo.
“E’ vero, papà. Ci siamo incrociati, mi ha salutato e mi ha portato il
borsone. E’ stato così educato e gentile, che non mi sono sentita di mandarlo
via e rifiutare il suo gesto. Si è comportato come un vero cavaliere, papà. E
poi non ero da sola. C’era Sandy con noi. Stavo andando a scuola con Sandy,
quando abbiamo incrociato Alex.”
Elizabeth aveva fatto il suo nome, perché sapeva che era l’unica amica
che aveva, l’unica persona talmente fedele alla loro amicizia, che l’avrebbe
coperta senza neanche che le venisse chiesto. E poi... A Sandy piaceva il fatto
che Elizabeth uscisse con Alex. Sosteneva che per lei quel ragazzo fosse un
toccasana e che fossero fatti l’uno per l’altra.
Albert credette all’istante alle parole di Elizabeth. Aveva educato
sua figlia a ubbidirgli, a dirgli sempre la verità. Non gli avrebbe mai mentito,
tanto meno in quell’occasione, in cui non ne avrebbe avuto motivo. Non avrebbe
avuto nessuna ragione per difendere un manigoldo che conosceva solo di vista.
Tornò di nuovo a fulminare Alex, afferrandolo per l’orecchio. “Pur stando così
le cose, ti proibisco di avvicinarti di nuovo a mia figlia e soprattutto di
abusare della sua buona educazione. Mi sono spiegato?”
“Va bene, va bene, Capo! Non la faccia tanto lunga, eh! Ma vai a far
del bene, tu!” si finse seccato.
“Ah, così adesso fai anche il buon samaritano, eh? Fai anche il
gentleman! Sarà meglio per te che...”
Di nuovo un sonoro toc-toc sulla porta.
“Sì? Ancora? Chi è, adesso?” sbottò Albert.
L’agente Tasher si sbrigò a entrare e parlò a macchinetta dal terrore.
“Lo possiamo rilasciare, Commissario!”
“Che cosaaaaa?” domandò Albert sbigottito con gli occhi fuori dalle
orbite.
“Tutti i coinvolti nella rissa nel bar, più il barista e il personale
hanno confermato che il qui presente Alex Tennence è estraneo alla rissa e che
stava solo tentando di portare via il suo amico, Commissario!”
“Va bene, Tasher. Puoi andare!”
Il Commissario Reeves alle volte sapeva suscitare così tanta
soggezione che l’agente Tasher inciampò per uscire dal suo ufficio.
“Gliel’avevo detto, Capo!” commentò Alex vittorioso, col suo solito
strafottente ghigno di superiorità e soddisfazione stampato in volto.
“Va bene, va bene! Levategli le manette e poi vattene!” lo cacciò
Albert, nervoso e molto più che irritato di non poter sbatterlo dentro una
volta per tutte, come aveva a lungo sperato. E come da sempre sperava. Ma ogni
volta, gli estremi per farlo venivano puntualmente a mancare. Purtroppo per
Albert. Per fortuna per Alex.
“Non posso, Capo!” esclamò Alex.
“E perché non puoi? Che cosa vuoi ancora? Vattene”
“Ma Capo, io devo parlare con sua figlia!”
“Con mia figlia?” sobbalzò Albert a mo’ di molla come il suo solito.
“Ti ho appena impartito il perentorio ordine di non avvicinarti mai più a lei!”
“Io non mi avvicino mica, Capo! Posso parlarle anche da questa
distanza. Dal momento che è qui, vorrei chiederle se riesce a procurarmi un
paio di biglietti per il suo prossimo spettacolo. Verrà anche il chitarrista
della mia band, che vuole capire come inserire questa strana forma d’arte nella
nostra musica!”
Albert prese fuoco ed esplose come una bomba a orologeria. Di nuovo.
“E perché, allora, non vai a teatro e non te li compri da solo?” gridò così
forte, che Elizabeth fu costretta a tapparsi per un istante le orecchie.
“Perché, Capo, io sono molto impegnato...”
“Sì, a far danno!”
“Non mi interrompa quando parlo, Capo! Non faccia il maleducato. Io
sono molto impegnato con le prove, abito dall’altra parte della città e non ho
tempo di passare a teatro. E poi, Capo... Io ho da fare con quella ragazzaaaaa!”
aggiunse Alex a mo’ di cantilena.
“Ancora con questa ragazza! Sono proprio curioso di sapere chi sia
questa povera disgraziata che ha avuto la sfortuna di avere a che fare con te.”
“Ah no, Capo! Quando glielo volevo dire, lei non ha voluto saperlo,
quindi ora si arrangia. Le posso solo dire che è una dolce fatina… Una ragazza
in gamba, insomma!” replicò sempre prontamente Alex, lanciando un fugace, ma
eloquente sguardo a Elizabeth, che dovette fermare le labbra, già curvanti
verso l’alto in un intenerito e divertito sorriso.
“Povera ragazza! Comunque muoviti con questi biglietti e levati dalle
scatole!”
Elizabeth tirò fuori dalla borsa un paio di biglietti, con un modo di
fare così leggiadro e delicato che sciolse i cuori di tutti in quell’ufficio.
“Ecco, Alex, prendi questi. Erano di due parenti che non possono più venire. Li
avrei buttati.”
“E di chi?” li interruppe Albert.
“Della zia Luigina e dello zio Esmeraldo, papà!”
Alex soffocò una risata. Non voleva offendere Elizabeth, ma i nomi di
quei due lo facevano piegare in due dal ridere. Avrebbero avuto lo stesso
effetto persino sulla persona più seria del mondo. Eccetto Albert, ovviamente.
“Ah già. Quei due vecchi bacucchi!” ricordò Albert.
“Ma papà! Non essere scortese con i miei zii.”
“No, sono zii di tua madre!”
“Anche miei, papà. Di terzo grado, un po’ alla lontana, certo, ma sono
pur sempre i miei zii! E sono sempre stati carini con noi!”
“Vede, non faccia l’ingrato, Capo!” intervenne irriverente Alex.
“Fa’ silenzio, tu! Forza, prendi quei biglietti e levati dalle
scatole!”
Alex li prese, sfiorando volutamente la mano di Elizabeth, facendo
alzare ad Albert gli occhi al cielo dall’esasperazione.
“Quanto ti devo per questi?” le domandò Alex.
“Nulla, Alex. Nulla. Te li regalo volentieri.”
“Coooosa!” ruggì Albert.
“Ma papà, tanto li avrei buttati. E’ il mio modo di sdebitarmi con lui
per avermi così gentilmente portato il borsone!”
“Capo, se le dà tanto fastidio, glieli pago!”
“Va bene! Te li regala, te li regala! Basta che ora ti tolga dalle
scatole!”
“Arrivederci Capo! E non si arrabbi troppo in questi giorni! Si
ricordi che cosa le ha detto il suo collega sulla pressione!”
“Vai via!” scattò Albert, lanciando anche a lui il portapenne, ma
senza ottenere il risultato sperato.
Alex era un razzo, proprio come quando sfrecciava in moto, e lo
schivò, richiudendo la porta alle sue spalle, facendo così spargere tutto il
contenuto del portapenne a terra.
Elizabeth rimase lì, in piedi al centro dell’ufficio col cuore che
batteva all’impazzata per l’emozione di aver rivisto Alex così in breve tempo.
Un’inspiegabile emozione, che mai aveva provato prima di allora. Sapeva di
essere viva.
“Papà, io andrei. Ecco, tieni i documenti”, gli disse, porgendogli il
motivo della sua improvvisata.
“Grazie, tesoro. Sei sempre impagabile. Perdona la mia collera, ma
quell’Alex dei miei stivali riesce sempre a farmi dare i numeri.”
“Lo so, papà. Perdona la mia buona educazione. So che non avrei dovuto
farlo avvicinare, ma...”
“Lo so, lo so, tesoro di papà. Non è con te, che ce l’ho. Ma con quel
manigoldo che si approfitta delle buone maniere delle ragazze per molestarle.
Hai fatto comunque bene ad agire così. Ricorda. Tu sei sempre una gran signora”,
le disse
Albert stravedeva per sua
figlia. Ogni sua azione era giustificata e giustificabile. Se solo avesse saputo
la verità!
Elizabeth annuì col capo, aiutò Barney a raccogliere le penne e se ne
andò, col cuore che ogni istante accelerava i suoi battiti, stravolto dalle
forti emozioni che provava in presenza di Alex.
“Non capisco perché debba venire anch'io!” si lamentò Edward, il
ricciolino, chitarrista solista della band e miglior amico di Alex.
Due ragazzi scapestrati e combinaguai, provenienti dal ghetto entrambi
senza un soldo in tasca, col rock nel cuore e tanta voglia di sfondare.
“Te l’ho detto, Ed! Il capo sospetterà, se vado di nuovo da solo!
Ormai ho detto che ci vieni! E ci verrai! Guarda che è molto meglio di quanto
pensi! Se davvero riuscissimo a mescolare la musica classica con la musica
rock, beh... Faremo un gran bel salto di qualità sia dal punto di vista
artistico, sia dal punto di vista umano! Vedila così. Non possiamo fare sempre
la solita musica! Il pubblico si annoierà e penserà che sappiamo fare solo
quello. Dobbiamo aprirci di più, guardare avanti, ricercare l’originalità pur
mantenendo sempre la nostra impronta”, gli spigò Alex.
“Eh, come se fosse semplice!”
“Non fare il solito puffo brontolone! Siamo artisti! Non abbiamo
regole! Possiamo esprimerci come vogliamo!”
“Giàààà... Mi hai convinto, vecchia canaglia! Vedremo se questa
Elizabeth è davvero così bella, da valere tutti questi sforzi!” sghignazzò
Edward davvero curioso di scoprire come fosse l’unica ragazza in grado di fare
perdere la testa ad Alex in quel modo assurdo.
“Lo è, lo è, Ed! Ma non guardarla troppo!”
“Tienitela pure! Di una delicata ballerina d danza classica, io, non
me ne faccio nulla. Però...” sogghignò divertito.
“Però cosa?” si irritò Alex.
“Per tenertela, Alex, devi prima conquistarla!”
“Oh, piantala!” esclamò seccato, lanciandogli un cuscino del divano,
come ogni volta che Edward lo esasperava con le sue punzecchiate.
“Ah, l’amore è nell’aria! E mi sa che tu, caro il mio Alex, lo senti
più di tutti!” lo prese in giro Edward.
“Chiudi il becco! Io non sono innamorato di lei! La voglio e basta. Mi
piace. E allora?” si spazientì Alex sulla difensiva.
“La vuoi, perché ne sei innamorato. Non negarlo, perché non ci sarebbe
niente di male! Guarda che ti ho visto al locale. Ti ho visto respingere un
sacco di ragazze molto carine che ci provavano con te. E non ti ho più visto provarci
con nessuna. Se n’è accorto anche Max, il barista. Pensa che tu stia male! O
che abbia preso una botta in testa. Di’ un po’... Quand’è stata l’ultima volta
che sei stato con una ragazza?”
Alex ci rifletté bene prima di rispondere. Sembrava impossibile anche
a lui. Non ci aveva mai fatto caso. “E’ stata con Elizabeth. Poi basta. Credo.”
“Credi, perché è così. Alex, non rimorchi più una ragazza da qualche
settimana, ormai. Non è da te. Capirai, prima rimorchiavi una sera sì e l’altra
pure! Senza contare il fatto che ne hai cambiate anche due o tre in una sola
serata, prima di scegliere quella che ti piaceva di più. Perché ora te ne stai
in clausura come i preti?”
Alex si vide costretto a tapparsi la bocca e a rifletterci su. Era
tutto vero. Non aveva più nemmeno guardato una ragazza, da quando era stato con
Elizabeth e non se ne era mai reso conto. Figuriamoci se poteva capire il
perché. “Non lo so, Ed. E’ solo che... Non mi va. Non mi va stare con nessuna,
se non con lei. Con lei, sì! Credo che non ne avrei mai abbastanza. Ma questo
non vuol dire che io sia innamorato!”
“Bah, se lo dici tu, sarà vero... Ragazzo innamorato!” lo derise il
ricciolino.
“Falla finita! Ora andiamo, ché si sta facendo tardi”, lo spronò Alex
per non dover affrontare l’argomento.
Mentre era al volante, Alex rimase turbato e silenzioso durante tutto
l’arco del tragitto verso il teatro. In realtà, anche se non voleva litigare
col suo migliore amico, era arrabbiato con Edward. Era arrabbiato perché in
fondo al cuore, nell’inconscio più profondo e nascosto, sapeva che Edward aveva
ragione. Elizabeth non era stata una semplice avventuretta da quattro soldi
priva di significato, bensì molto, molto di più. Non poteva negare ciò che
aveva provato assieme a lei e non poteva cancellare quel ricordo. Il ricordo di
ciò che era accaduto dopo. Non poteva dimenticare l’aura di serenità che
Elizabeth aveva portato e che sempre portava con sé, quell’aura di serenità che
gli aveva permesso di dormire tranquillo e senza incubi, dopo aver fatto
l’amore con lei. Perché Alex non dormiva. La notte, Alex era tormentato dai
suoi spettri, perseguitato dai suoi incubi, dai ricordi del padre che picchiava
lui e la madre, le sfuriate con cui devastava la casa, quando rientrava ubriaco
e fuori di sé per aver perso tutto al gioco d’azzardo. Alex era ormai abituato
a dormire poco e male. Da quando era piccolo. Eppure, accanto a Elizabeth si
era addormentato. Aveva dormito, come mai aveva dormito in tutta la sua vita.
Sereno. Rilassato. Un sonno profondo e senza quegli incubi che gli andavano a
far visita e che lo tormentavano ogni notte. Elizabeth significava troppo per
lui. Era la sua pace. Era la sua serenità. Era il suo amore.
Proprio così. Edward aveva ragione. E ammetterlo con se stesso fu
davvero rigenerante. Era innamorato di Elizabeth. Lo era sempre stato. Era
certo di averla amata nel primo istante in cui l’aveva vista, lì, al locale,
seduta in quell’angolino sperduto e dimenticato dal mondo. Proprio come lo era
sempre stato lui. Dimenticato dal mondo. Dal padre. Dalla madre. Da tutti. La
band era tutto ciò che aveva sempre avuto. Ma ora, aveva l’amore. L’amore per
Elizabeth. Alex l’amava. Amava tutto di lei. La sua dolcezza, la sua
delicatezza. La grazia, la gentilezza, l’eleganza. L’arte. L’arte scaturiva in
lei, in Elizabeth.
Elizabeth era un’opera d’arte. La più bella e pura, che Alex avesse
mai avuto l’onore di ammirare.
Albert aveva preso posto già da un pezzo, pur di non rischiare di far
tardi al balletto. Era emozionato, come si emozionava ogni qualvolta vedesse
sua figlia danzare. In fondo in fondo, un cuore nascosto da qualche parte, in
chissà in quale spazio dimenticato e remoto del petto, ce l’aveva anche lui.
Sua figlia Elizabeth era la cosa più importante che possedeva, insieme alla
moglie. Era il suo orgoglio, il suo gioiello più prezioso. Amava davvero sua
figlia. E avrebbe voluto solo il meglio per lei. Lo spettacolo doveva ancora
iniziare e lui era già piombato in un inquieto stato d’ansia. Non vedeva l’ora
di vedere sua figlia nei panni di Giulietta, con al fianco un eccellente Emile,
che aveva da sempre sperato diventasse il suo Romeo. Cosa che sembrava proprio
non voler accadere. Si domandava spesso che cosa passasse per la testa a
Elizabeth. Quando mai avrebbe avuto l’occasione di incontrare nuovamente un
buon partito come Emile? Un buon partito, innamorato di lei, per giunta!
Accidenti a lei e alla sue fandonie sui sentimenti!
“Salve Capo! Le dispiace se mi siedo?” lo distrasse una voce deridente
e familiare. Anche troppo familiare.
“No! Oh no! Tu no! Anche qui ti devo trovare! Va’ a sederti da
un’altra parte!” lo cacciò Albert, quando vide Alex sedersi sulla poltrona
accanto alla sua.
“Ma Capo, si dà il caso che questo sia il mio posto!” protestò Alex
con la sua solita aria di scherno e il sorrisetto da canaglia.
“Il tuo posto?”
“Sì, i biglietti che mi ha dato Elizabeth. Ricorda?”
“Ah già”, sospirò Albert rassegnato.
“Grazie Capo! Ah, lei si ricorda del mio amico, Edward. Vero?” chiese
con aria canzonatoria, indicando il ragazzo ricciolino che si era seduto accanto
a lui, ragazzo che Albert riconobbe all’istante.
“Come potrei dimenticarlo?” Albert decise di lasciar correre solo per
quella volta l’episodio della moto e del dito. Non voleva rovinarsi la serata.
“Mannaggia a mia figlia! Con questa sua beneficenza sta rovinando anche gli
altri!” si lamentò Albert.
“Beneficenza?”
“Sì, Alex. Beneficenza. Ti ha dato quei biglietti solo perché ti
ritiene un povero ragazzo sbandato e sfortunato, perché le fai pena insomma.
Cosa credi? Di starle simpatico? Levati queste assurde e insensate idee dalla
testa!”
Per Alex fu come ricevere un colpo al cuore. “Così mi offendo, capo.”
“Beh, peggio per te! Oh, tu sei furbo. Ma a me, non m’incanti! Non la
bevo la storia del povero ragazzo sbandato e sfortunato come l’ha bevuta lei,
anima innocente e candida. Tu sei un gran manigoldo!”
Edward non aveva fatto altro che sghignazzare da quando Albert aveva
definito Elizabeth un’anima innocente e candida. Innocente forse lo era, ma
candida... Non più, ormai. Non dopo essere stata con Alex al primo incontro!
“Che cos’ha da ridacchiare il tuo amico?” domandò Albert in tono
sospettoso.
“Niente, Capo. Ha la coda di paglia?” lo seccò Alex.
Nel backstage intanto convivevano frenesia e ordine. Ognuno fremeva
d’ansia per salire sul palco e dare il meglio di sé e tutti si stavano già
posizionando ai loro posti. Elizabeth si comportava in maniera alquanto
bizzarra. Invece di starsene in camerino fino alla fine come al suo solito,
gironzolava come un’anima in pena in ogni dove dei retroscena, suscitando così
la curiosità di Emile che, vedendola così in libertà quella sera, non perse
l’occasione di corteggiarla un po’, né di starle appiccicato addosso. Elizabeth
non mancava di maltrattarlo un pochino di tanto in tanto. Emile stava diventando
così esasperante, che spesso e volentieri Elizabeth perdeva il controllo e
scattava un po’. Era davvero agitata. Non sapeva il perché, ma il fatto di
sapere che Alex fosse lì tra il pubblico in prima fila la emozionava in maniera
alquanto bizzarra e magica. Già. Era lì in prima fila, a guardarla, proprio
accanto a suo padre. A suo padre?
“Oh no! Che pasticcio ho combinato!” esclamò ad alta voce, prendendo
finalmente atto che aveva dato ad Alex e al suo amico i biglietti per i posti in
platea in prima fila, proprio accanto al padre.
“Che hai fatto, Liz? Sta’ calma!” si precipitò Emile ansioso e
confuso.
“Emile, fatti gli affari tuoi e lasciami un po’ in pace, stasera! Mi
stai appiccicato come un’inutile zecca!” scattò lei, non potendone davvero più.
Emile ne rimase piuttosto mortificato. Conquistare il cuore di
Elizabeth si stava rilevando una vera e propria sfida titanica per lui.
La ragazza, intanto, aveva subito approfittato dell’attimo di spaesamento
di Emile per scattare verso il sipario. Scostò timidamente la tenda e fece
capolino con la testa, alla ricerca di Alex, come se volesse verificare che
fosse tutto a posto, come per controllare che Alex riuscisse a cavarsela con
suo padre anche in quell’occasione poco piacevole tutti. Forse non per Alex.
Sembrava divertirsi in maniera smisurata in presenza di Albert. Perché, da
brava canaglia, non faceva altro che prendersi gioco di lui! Eccolo lì! Elizabeth
lo trovò in un attimo. Proprio accanto a suo padre, il quale aveva l’aria
alquanto seccata, come se si stesse trattenendo a fatica dall’esplodere come
una bomba a orologeria da un momento all’altro. Se ne stava lì, seduto a
braccia conserte col muso lungo e corrucciato, fumando aria rovente dalle
narici come un toro inferocito, pronto a caricare il torero.
Non Elizabeth appena vide Alex, un dolce sorriso e un tenero saluto
con la mano fuggirono al suo controllo. Alex ricambiò con altrettanto
entusiasmo, come se le parole pronunciate poco prima da Albert riguardo la
beneficenza non fossero mai state esistite.
“Smettila di dare confidenza a mia figlia! Se ti sta salutando, è solo
per buona educazione! E perché le fai pena, manigoldo!” scattò Albert,
iniziando a spazientirsi.
“Su via, Capo! Non la faccia tanto lunga per un saluto di circostanza!
E ora faccia silenzio, ché comincia lo spettacolo!” lo zittì Alex.
E Edward sghignazzava sadico e divertito sotto i baffi.
Le luci si affievolirono fino a spegnersi, lasciando soltanto una scia
bianca e luminosa puntata verso il palco. Il sipario si aprì, ed eccola lì, la
bella Giulietta. Elizabeth. Inutile dire quanto fosse spettacolare e magica la
sua esibizione. Volteggiava leggera e sofisticata sulle punte, conferendo a
Giulietta la delicatezza tipica dell’angelo che la caratterizzava. Alex riuscì
a stento a mantenere un atteggiamento indifferente e disinvolto verso di lei.
La stessa sensazione di benessere e serenità che aveva provato stando con lei
lo invase con prepotenza e scaldò il suo cuore tremolante e infreddolito a
causa di anni e anni di dolore e sofferenza. Elizabeth era la sua fatina
risanatrice, in grado di guarire qualunque male dell’anima. E Edward se ne
accorse. Conosceva troppo bene Alex. Glielo leggeva in faccia. Alex vide il
commissario commuoversi durante l’esibizione della figlia, un comportamento
piuttosto raro da parte sua. Forse, anche lui aveva un cuore. Ben nascosto
dietro una maschera di ferro. Ben sepolto sotto anni e anni di troppa rigidità
antica, appesantita dall’integrità morale dell’uniforme che portava. Ma ce
l’aveva.
Elizabeth danzava. Albert si commosse. Alex sentiva la pace
dell’anima.
Edward sbadigliava.
Non appena lo spettacolo finì, le luci si riaccesero e i ballerini si
inchinarono al pubblico. Albert lanciò un occhio alla sua sinistra per
controllare l’atteggiamento di quel manigoldo, ma lui non c’era. Non c’era più.
Era come sparito, volatilizzatosi nel nulla. Schizzato via. E con lui il suo
amico.
“Ma che cosa stanno combinando quei due?” si chiese, irritato e
sospettoso.
Deformazione professionale. Scosse il capo e decise di lasciar
perdere. Avrebbe indagato nel giro di qualche minuto.
Ora non desiderava altro che applaudire sua figlia.
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