sabato 21 ottobre 2017

Un manigoldo per genero - 6° puntata - di Ambra Tonnarelli


Luminosa la notte tempestata di stelle e puntinata da lucciole artificiali. Nero il cuore di Alex. Aveva ritrovato Elizabeth, era riuscito a parlare con lei e aveva scoperto che suono avesse la sua voce. Soffice e delicata, proprio come lei. Sapeva che se avesse insistito, Elizabeth sarebbe crollata e avrebbe ceduto, concedendogli un appuntamento. Avrebbe voluto dirle che comprendeva quanto fosse disperata e che tanto avrebbe voluto lenire la sua anima in pena, ma non aveva fatto in tempo. Reeves. Era la figlia del commissario Albert Reeves. E questo, non lo avrebbe sicuramente aiutato a conquistare il cuore diffidente e spaventato di Elizabeth. Anzi, avrebbe soltanto peggiorato le cose. Reeves non sarebbe stato un problema per lui, in quanto ci aveva a che fare un giorno sì e l’altro pure. Sapeva come tenerlo a bada. Il guaio vero e proprio era costituito dalle crudeli parole con cui Reeves stava di sicuro riempendo il candido cervello di Elizabeth, sconvolgendola ancora di più. Se dopo essere stata con Alex, Elizabeth si era sentita uno schifo, scoprire che egli non fosse il bravo ragazzo che avrebbe sicuramente sperato che fosse, non l’avrebbe di certo fatta sentire meglio, al contrario. L’avrebbe fatta sentire come letame per concimare i campi. E di sicuro non avrebbe più voluto vedere Alex. Ma Alex non era mai stato un tipo arrendevole che getta la spugna al primo intoppo. Sarebbe riuscito a strappare un appuntamento a Elizabeth, le avrebbe fatto capire quanto in realtà valesse e quali sani principi di fondo lo animassero, che Reeves l’avesse voluto o meno. Guidò stizzito e disperato fino a casa di Edward, dove tutti e i cinque i compari della band lo attendevano ansiosi di scoprire come fosse andata la serata e di far bisboccia con lui. 
“E’ la figlia del capo della polizia, porca miseria! Questa proprio non ci voleva! Le starà senz’altro riempendo la testa di balle su quanto io sia malamente!” si lamentò Alex coi ragazzi della band, una volta rientrato a casa e raccontato l’accaduto.
“Beh, non è che tu sia proprio uno stinco di santo, eh! Come noi del resto! Lasciala perdere, Alex! O ti caccerai solo nei guai!” lo ammonì Edward.
“Ci sono già nei guai! E poi... Non si dica mai in giro che Alex getti la spugna al primo intoppo e si lasci sfuggire una fanciulla così sexy!”
“Per me, sei innamorato!” ribadì il ricciolino.
“Ah, ma piantala! Piuttosto, passami una birra, ché è meglio!” lo zittì Alex, stufo della serata.
I cinque compagni di sventure fecero bisboccia in casa tutta la sera, chi per sballare e chi, come Alex, per evadere. Fu l’unico a non chiudere occhio. Se ne stava a fissare il pericolante soffitto. A pensare. Si sentiva un vero schifo. Ma che cosa aveva quella ragazza di così speciale, da attrarlo così tanto? Nessuna mai gli aveva fatto un simile effetto. Ripensò a quella notte e a quel fugace, ma intenso momento di passione che avevano vissuto insieme. Doveva rivederla ancora una volta. Sentiva che non ne avrebbe avuto mai abbastanza di lei. E non sapeva spiegarsi il perché.
“Meglio lasciar perdere. Lasciamo vivere le emozioni in santa pace, così evito di impazzire! Piuttosto, devo concentrarmi su come conquistarla e convincerla a uscire con me. Al diavolo suo padre! Che vada pure a farsi fottere, quel dittatore dei miei stivali! Lui e le sue idiote fissazioni e paranoie! Sarò me stesso, fino in fondo. Elizabeth dovrà imparare ad apprezzarmi così disastrato come sono. Nessun trucchetto!” si disse Alex deciso.
Ora poteva finalmente dormire.

“Emile, più vigoroso quando sollevi Elizabeth! Voglio vedere un movimento più maschio, più virile, mantenendo quella nota di sentimento che ci metti sempre tu! Riproviamo tutta la sequenza, da capo!”
Hilary aveva già messo sotto torchio il suo corpo di ballo per un altro spettacolo: Romeo e Giulietta, di cui Emile ed Elizabeth sarebbero stati gli sentiti interpreti.
Elizabeth adorava il personaggio che le era stato assegnato, ma chissà perché, non riusciva a esprimere il massimo della passione disperata tipica di due innamorati costretti alla clandestinità.
“Elizabeth, più passionale, come se Emile fosse colui che ami e desideri di più al mondo, sia dal punto di vista sentimentale, che fisico. Anche tu Emile, meno sdolcinato e più passionale! Voi siete Romeo e Giulietta, vi amate incondizionatamente e alla follia. Morireste l’uno per l’altra. Dovete cercare di esprimere al meglio questo sentimento. Ora riproviamo ancora la sequenza. Voglio verificare che abbiate memorizzato i passi e concludiamo per oggi. Avete lavorato molto e bene. Siamo tutti piuttosto stanchi. Alla parte interpretativa penseremo a mente più lucida, però voi due riflettete su quanto vi ho spiegato!” li istruì Hilary.
Elizabeth ed Emile si limitarono ad annuire col capo. Emile non ebbe problemi a credere che Elizabeth fosse la sua Giulietta, perché in effetti lo era già, ma non si poteva di certo dire lo stesso anche per lei. Era distratta, strana. Completamente tra le nuvole. Non riusciva a togliersi Alex dalla testa. La sua simpatia le aveva fatto battere il cuore tanto quanto il suo carismatico fascino. E quell’aria da canaglia... Quella la mandava in estasi ogni volta. Chissà perché, quando riprovò la sequenza con Emile, Elizabeth vide Alex, immaginò una loro utopistica storia d’amore, destinata alla clandestinità, proprio come Romeo e Giulietta. E la sequenza che ne uscì fuori fu eccezionale. Del resto, Alex ed Elizabeth erano Romeo e Giulietta. Proprio come loro. Al solo pensiero, a Elizabeth si accapponò la pelle, mentre l’orrore e la vergogna per ciò che stava pensando la invadevano a tradimento. Se non altro, Alex l’aveva inconsapevolmente aiutata a rendere giustizia a una sequenza che senza tali sentimenti sarebbe risultata sciatta, meccanica e robotica.
Elizabeth, ricevuti estasiati complimenti da parte di sua madre e di tutta la compagnia prese su il borsone e fece per scappare nello spogliatoio, desiderosa di tornare a casa, stanca, ma soddisfatta di sé e del buon lavoro svolto. Soddisfatta di sé, come ballerina.
“Elizabeth!” la fermò Emile prima che andasse a fare la doccia. “Usciamo insieme dopo la doccia? Andiamo a fare due passi in centro, vuoi?” Gli occhi che brillavano di speranza.
“No, grazie, Emile. Vorrei andare a casa, sono stanca in questi giorni. Mi hai vista anche tu.”
Emile abbassò lo sguardo, di nuovo deluso e mortificato. “Posso accompagnarti a casa?”
“No. Ti prego. Ho bisogno di stare un po’ da sola. Scusami, Emile. Io so che tu ci tieni molto a tenermi compagnia e farmi stare meglio, ma nessuno può. Ti prometto che non appena mi sentirò meglio, ti inviterò io a uscire. Abbi solo un po’ di pazienza.”
Lo sguardo di Emile si illuminò di nuovo di dolcezza e di speranza. “Va bene, Liz. Grazie. A domani, allora!” la salutò, scoccandole un bacetto sulla guancia.
“A domani.”
Elizabeth non vedeva l’ora di gettarsi sotto una bella doccia calda. Aveva scoperto in quei tristi giorni che la doccia era un’ottima psicoterapeuta, un’aiutante preziosa per riflettere e rilassarsi, come se fosse in grado di lavare momentaneamente via anche i brutti pensieri.
“Povero Emile! Mi dispiace rifiutare i suoi continui inviti, ma proprio non mi va di uscire con lui. Chissà perché? E’ un così bravo ragazzo! Uffa! Forse dovrei uscirci e farlo contento. Mi dispiace in fondo trattarlo così. Ma proprio non mi va di uscirci! Ci penserò più tardi!”
Non fece altro che ripetersi a mo’ di disco incantato le stesse parole durante tutta la toilette e mentre scendeva le scale esterne all’ingresso per tornare a casa. Continuava a guardar basso, per accertarsi di tener bene sotto controllo i piedi per non cadere o inciampare. Solo quando rimase una rampa di scale a dividerla dal marciapiede alzò lo sguardo. E si fermò di colpo. La persona che si trovò appoggiata alla ringhiera, ai piedi della scalinata la fece trasalire.
Alex.
Con i suoi soliti pantaloni neri in ecopelle, una delle sue strambe canottiere e la sua inseparabile e amata fascia.
“Ciao, mia dolce fatina!” la salutò lui, disinvolto.
“Mio Dio, ancora tu! Che ci fai qui? Sei come un incubo per me!” esclamò lei a dir poco esasperata, mentre si dirigeva inevitabilmente verso di lui.
Questa volta non scappò.
“Invece tu sei come un sogno. Sembri uscita da una fiaba. Comunque, andiamo a fare un giro?”
“Ma sei pazzo? No! No, io non ci esco con te! Ti prego lasciami in pace! O chiamerò mio padre!”
Alex scoppiò in una menefreghista risata. “Me ne fotto, io, di tuo padre! Tanto lo vedo un giorno sì e l’altro pure! Non ho paura di lui e non intendo rinunciare a te, senza che tu mi abbia prima dato almeno un’occasione.”
“No. Io chiamo mio padre!” gli intimò già con il telefono in mano, mentre cercava il numero in rubrica.
“Senti, Elizabeth, chiamalo pure. A me non importa. Mi spaventa molto di più il fatto che tu continui a respingermi, nonostante tra noi ci sia stato qualcosa fuori del comune. Che a te piaccia o no. Non farlo morire così o morirai anche tu. Andiamo!” la esortò, allungandole la mano, proprio come quella sera in cui l’aveva invitata a ballare.
Elizabeth esitò.
“Andiamo, Elizabeth! Tu mi piaci da morire. E so che anch’io inconsciamente ti piaccio. E che vuoi conoscermi meglio così come lo voglio io. Prometto che farò il bravo.”
Ma Elizabeth continuava a non dar segni di vita. Nella sua mente vorticava un turbine inarrestabile di dubbi e di pensieri. Che fare? Ma perché ci pensava tanto? Lo sapeva che fare! Avrebbe dovuto allontanarlo e chiamare suo padre. Semplice no? Eppure non riusciva a farlo. Non riusciva a premere quel dannato pulsante di chiamata, come se il suo dito fosse bloccato da una forza incontrastabile. Lanciò un’occhiata alla mano di Alex con diffidenza e titubanza.
“Coraggio Elizabeth! Sei proprio sicura di voler fare quella telefonata?”
Elizabeth incontrò il suo sguardo magnetico, seduttivo e implorante. Si sentì nuovamente in suo potere, attirata da lui come se la stesse stregando con la sua voce calda e sensuale. Tirò un sospiro, mise via decisa il cellulare e con altrettanta decisione afferrò la mano di Alex, che la aiutò a scendere gli ultimi gradini con un luminoso sorriso colmo di gioia.
Il cuore leggero.
Ce l’aveva fatta. Elizabeth aveva finalmente ceduto.
“Rilassati! Non ho nemmeno la macchina, sono a piedi!” la rassicurò lui con sorriso rilassato e illuminato di speranza, mentre si incamminavano l’uno di fianco all’altra, attirando così la curiosità di Emile che li aveva osservati dalla sua auto per tutto il tempo. Ma chi era quel bizzarro ragazzo dall’aspetto delinquenziale? E come aveva fatto a strappare un appuntamento alla sua Liz? Emile rimase davvero deluso. Mise in moto e se ne andò.
“Non hai paura che mio padre ci veda in giro?” gli chiese Elizabeth, più preoccupata per se stessa che per lui.
“No, non c’è nulla da temere! Tuo padre è dall’altra parte della città. Un mio amico sta facendo da esca con la moto per coprirmi!”
Elizabeth sgranò gli occhi, esterrefatta. “Che cosa?”
“Già. Una volta sono finito dentro al posto suo, per salvargli il culo. Era ora che ricambiasse il favore!”
“Sei finito dentro al posto suo?” ripeté sconvolta. Ma con chi stava uscendo? E soprattutto, lui, che razza di gente frequentava? Che amici aveva?
“Sì. Mi sono preso la colpa per qualcosa che aveva fatto lui, per proteggerlo. E’ il mio migliore amico. Con tuo padre, me la cavo meglio io che lui!” le spiegò disinvolto.
“Ah, su questo non ho dubbi! Ma che cosa aveva fatto?”
“Aveva rotto una vetrina con un sasso, così, per fare il cretino.”
Il braccio di Elizabeth sfuggì inaspettatamente e istintivamente al suo controllo. Lo allungò e gli poggiò con dolcezza una mano sulla spalla. Lui ne avvertì il tocco soffice, come quello di una piuma. La sensazione che ricevette lo inebriò intensamente. Avrebbe voluto baciarla, lì ovunque si trovassero, di fronte a tutti senza ritegno. Ma doveva controllarsi o l’avrebbe persa per sempre.
“Il tuo è stato un gesto molto nobile, Alex. Non è da tutti. Sono colpita”, gli disse, stupendo lui, ma molto di più se stessa. Di nuovo.
“Beh, mi fa piacere che lo pensi”, se ne rallegrò Alex.
“Ma se questa volta finisce dentro lui per te? Se mio padre lo prendesse?”
Alex esplose in una sonora risata. “Ma no, che non lo prende! E’ diventato troppo furbo, il mio amico! E poi se lo prende, vorrà dire che si sdebiterà per ciò che ho fatto io per lui. Vieni, andiamo al parco! Ah, a proposito, te lo prendo io, quello?” le chiese cavallerescamente, indicando con un cenno del capo il borsone di lei.
“No grazie, Alex. Ce la faccio.”
Ma Alex fu irremovibile. Testardo come un mulo, glielo tolse dalle mani e se lo mise a tracolla.
“Grazie”, si limitò a dire lei, abbassando lo sguardo imbarazzata.
“Di nulla, dolce fatina!”
Alex la prese per mano, facendo di nuovo sfoggio della sua illimitata intraprendenza. Elizabeth sentì il calore avvamparle sulle guance rosate e delicate, ma non lo respinse. Sì lasciò guidare da lui verso il parco col cuore che batteva, rinato a nuova vita.

“Attenzione al gatto, Commissario!”
Albert sgommava tra i vicoli della periferia come un matto all’inseguimento di quel razzo che sfrecciava davanti a lui.
“Silenzio, Barney! Non mi distrarre! O lo perdiamo!”
“Ma Commissario, secondo me vuole che lo inseguiamo! Potrebbe lasciarci qui in ogni momento, data la potenza di quella moto!”
“Smettila di blaterare, Barney! Che sciocchezze stai rimuginando in quel tuo cervelletto da poliziotto di quartiere? Non può andare più forte in mezzo a tutti questi vicoli!”
Albert guidava con gli occhi fuori dalle orbite all’inseguimento di quel motociclista da strapazzo. Le sgommate e le sirene dell’auto della polizia risuonavano per tutto il quartiere. Urtò bidoni della spazzatura, schizzò sopra le pozzanghere colme di melma... Un putiferio, insomma!
“Fermati! Polizia! Fermo disgraziato! Alex, accosta subito quella moto! E’ un ordine!” gridava Albert furibondo, di tanto in tanto.
“Ma Commissario, non può sentirla!”
“Chiudi il becco, Barney!” gli intimò Albert.
All’improvviso la moto si fermò, in una strada statale sperduta, alle porte di Los Angeles, costringendo Albert a una frenata a secco così brusca da sbalzare sia lui che il suo collega verso il cruscotto, nonostante la cintura di sicurezza. Il motociclista si sfilò per un istante il casco e la parrucca rossa di capelli lunghi che ricadeva morbida sulla maglia smanicata, scuotendo la sua folta e nera criniera di cavatappi. Albert fu colto da una sconcertante sorpresa. Non era chi si aspettava.
Il giovane ricciolino gli alzò il dito medio, con un ghigno sadico colmo di soddisfazione. “Questo glielo manda Alex! La saluto capo!” gridò divertito in tono canzonatorio, tipico di chi te l’ha appena fatta sotto il naso. Poi, sgassò via, schizzando verso l’orizzonte come un proiettile in corsa, lasciando Albert e Barney a bocca aperta.
“Accidenti, sono stato imbrogliato! Che cosa combinano quei due? Chissà quali guai starà combinando quell’Alex dei miei stivali! Che cosa diavolo sta tramando quel manigoldo? Si è preso gioco di me!” s’infuriò Albert, battendo stizzito e con disappunto una mano sul volante.
“Commissario, io gliel’avevo detto che si stava facendo inseguire!” se ne uscì inopportunamente Barney.
Albert lo sbatté furibondo contro lo sportello con uno scattante spintone. “Sta’ zitto, Barney! Mi confondi sempre le idee! Parli, parli, parli e non giungi mai a una conclusione! E’ colpa tua!”
Il povero e mortificato Barney non poté far altro che tacere e incassare il colpo. Stimava moltissimo il commissario Reeves, era un uomo molto serio e professionale, sempre vige al dovere, sempre pronto a difendere i suoi colleghi e la legge, ma quando si innervosiva... Meglio lasciarlo perdere. Era impossibile ragionarci. Soprattutto quando c’era di mezzo Alex Tennence.
“Forza, andiamo a cercare quell’Alex!” esclamò Albert, pronto a partire alla riscossa.
“Ma Commissario, è come cercare un ago in un pagliaio!”
“Già. Mi scoccia ammetterlo, Barney, ma stavolta hai ragione. Però, se ha combinato qualche guaio, presto riceveremo delle segnalazioni. Meglio tornarcene al nostro lavoro. Aspetterò con ansia il momento in cui oggi metterò le mani su quell’Alex e lo sbatterò dentro una volta per tutte! E getterò anche via la chiave! Così vedrai che gli passerà la voglia di piantar grane!” s’immaginò Albert con aria sognante, sfregandosi già le mani soddisfatto.

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