Dormivano. Dolcemente dormivano. Un ragazzo e una ragazza si
stringevano nel sonno più profondo, l’uno accanto all’altra. In una macchina.
Nella macchina di lui. Lenti i respiri. Sereni gli animi.
Ma, si sa, non è nell’indole della serenità durare a lungo.
Elizabeth aprì gli occhi di scatto e respirò agitatamente in preda al
panico, come se le stesse mancando il fiato. Tutt’a un tratto, tornò in sé e si
rese conto di quanto fosse accaduto, di ciò che aveva fatto. Lei, sì proprio
lei che aveva sempre creduto all’amore cavalleresco d’altri tempi, lei così
dignitosa e così timida, così pudica e così vergognosa! Proprio lei che aveva
da sempre giurato a se stessa di concedersi solo al ragazzo che avrebbe amato e
da cui sarebbe stata riamata! E perché no? Anche solo dopo il matrimonio. Era
cresciuta con un’educazione “all’antica.” Si vergognò di se stessa e provò
ribrezzo verso quella ripugnante azione, che aveva compiuto. Non era da lei. Si
era praticamente concessa a un completo sconosciuto di cui non sapeva nulla.
Neanche il nome. Era nel panico. Era nel panico più totale. Ma doveva
assolutamente controllarsi o avrebbe rischiato di svegliare lui che dormiva
pesantemente di fianco a lei. Si rivestì in fretta e alla meglio, leggera e
silenziosa come il cigno quale era. Prese la sua borsa e aprì lo sportello.
Lanciò un ultimo, fugace sguardo languido di passione e nostalgia a quel
ragazzo dal fascino magnetico, come se da una parte non volesse più staccarsi
di lui. Ma scese. Il panico aveva vinto. Il forte botto dello sportello
rimbombò nelle orecchie del giovane cantante scavezzacollo, che da anni non
dormiva tanto serenamente, risvegliandolo bruscamente e di soprassalto.
Sussultò.
“Ma cosa...?” sussurrò in uno sbadiglio stropicciandosi gli occhi.
Si voltò, ma lei non c’era. Non c’era più.
Panico.
Si infilò alla meglio i pantaloni e scese, scrutando l’orizzonte con
sguardo disperato, nella speranza di scorgere la sua ombra nell’oscurità. La
vide. Vide la sua dolce fatina. Una scheggia nella notte. Era lontana. Già
troppo lontana per raggiungerla di corsa o per far manovra con l’auto.
“Ehi! Ehi! Aspetta! Aspetta, ti prego! Torna indietro! Ti prego torna
indietro! Non mi abbandonare! Ti supplico, torna indietro! Non mi lasciare!” le
gridò disperato a squarciagola con la possente voce che ogni sera sul palco
accendeva i cuori del pubblico.
Elizabeth l’udì. Udì quella possente voce, che tanto l’aveva ammaliata
e stregata. Ma il panico spezzò l’incantesimo, che fino a poco prima l’aveva
ipnotizzata. Corse ancora più forte.
Egli vide la sua sagoma delicata sparire nel buio delle luce notturne,
come un fantasma, uno spettro, senza lasciare traccia. Il giovane venne
all’improvviso colto da un inaspettato sconforto. Si sentì solo, perso,
abbandonato. Abbandonato dall’unica creatura in grado di lenire i mali della
sua anima, dall’unica creatura in grado di placare i suoi fantasmi. Rientrò in
macchina, lasciandosi cadere di peso su sedile al volante, a decidere sul da
farsi. Ormai era troppo tardi per inseguirla. Chissà quale strada aveva
imboccato? Fu in preda allo sconforto più grande, che aumentava
esponenzialmente ogni secondo che passava. Non riusciva a spiegarsi quanto
accaduto. Ci provò, ma non ci riuscì.
“Ma perché? Perché è scappata, maledizione? Siamo stati così bene
insieme! Mio Dio... Non so neanche il suo nome!” si lamentò ad alta voce,
picchiando il volante in segno di stizza. Una disperata stizza.
Si passò una mano tra i capelli rossicci e zuppi di sudore.
“Dannazione! Ma perché è scappata? Cioè, voglio dire... Se non voleva,
poteva fermarmi, no? Ci è stata senza batter ciglio! Allora le sono piaciuto e
neanche poco, dico io! Quindi, ricapitolando: io ci ho spudoratamente provato,
lei ci è spudoratamente stata. Lei mi è piaciuta, io le sono piaciuto. E
insieme siamo stati bene. Allora perché è scappata? Valle a capire tu, le
donne! Mi uccideranno prima o poi! Ora, ragioniamo. Come faccio a ritrovarla?
Un momento... Ma perché poi devo ritrovarla? Cioè, è stata un’avventura di una
notte, no? Troppe ne ho avute, di ragazze, senza vederle più dopo una sola
volta! Se ci si può rivedere bene, sennò l’avventura finisce lì. Quindi, perché
diavolo la voglio ritrovare? Devo essere impazzito! E’ stata un’avventura e
basta! Stop! Però... Certo che se riuscissi a ritrovarla, con quel culo che
ha... La vedrei volentieri qualche altra volta. Devo trovarla”, si disse per
giustificare a se stesso tanta disperazione, per convincere se stesso che
quella ragazza non gli avesse lasciato un segno profondo, che nessun’altra
ragazza gli aveva, né gli avrebbe mai lasciato. La serenità.
Ma lei, chi era?
Si rinfilò la t-shirt sbracciata e scese dall’auto in preda alla disperazione
più totale, non avendo la minima idea di come cominciare a cercarla. Decise che
non sarebbe stata una cattiva idea incominciare dal locale. Rientrò.
“Alex Tennence!” tuonò una furia che lo travolse non appena rientrò
dal retro del locale. Dopo un’ora! “Che fine ha fatto Elizabeth?” gli gridò
contro con un cucchiaio di legno in mano. Armata di un innocuo, pericoloso
cucchiaio di legno.
“Chi?” domandò Alex spaesato.
Ebbe poi un’illuminazione. Forse poteva ritrovare la sua dolce fatina
con meno fatica del previsto. I ricordi prima del ballo rivennero a galla.
Lucy. Era l’amica di Lucy.
“Elizabeth è la tua amica giusto? La dolce fatina bionda nell’angolo,
con cui sono uscito poco fa?” le domandò speranzoso.
“Sì. Esatto, è una mia amica! Dov’è?” gli chiese spazientita Lucy, con
le mani sui fianchi.
“Beh, ecco... E’ fuggita!” si vide costretto ad ammettere Alex.
“Fuggita? Ma come fuggita? Alex, che cosa le hai fatto?” Lucy lo
fulminò con il suo sguardo sospettoso e indagatore. Conosceva fin troppo bene
quel malandrino di Alex Tennence.
“Chi? Io? Nulla, non le ho fatto proprio nulla!” si stizzì Alex,
incrociando le braccia indignato.
In effetti, aveva detto la verità. Non le aveva fatto nulla che lei
non volesse.
“Alex, dai andiamo! Non prendermi per scema! Ti ho visto, mentre
ballavi con lei! Come se non ti conoscessi! Ci hai provato vero?” lo beccò
Lucy, ma solo in parte.
“Beh, ecco io... Sì, insomma, cioè no, ecco volevo dire...” balbettò
Alex, intuendo che non fosse il caso di scendere nei dettagli dell’accaduto.
“Sei sempre il solito, Alex! Non cambi mai! Ma non lo sai che è
timidissima? Di sicuro l’hai spaventata!” si agitò Lucy, gesticolando
infervorata di rabbia.
“Appunto, allora devi aiutarmi a ritrovarla!” colse la palla a sbalzo
l’intraprendente Alex.
Gli occhi di Lucy si ridussero a due fessure colme di ferocia.
“Scor-da-te-lo! Se è scappata, vuol dire che non ti vuole più vedere, non ci
arrivi?”
Alex le prese le mani disperato e si mise in ginocchio di fronte a
lei. “Ti prego, Lucy! Domani chiamala e parlaci tu! Ti prego! Dille che le devo
parlare. Voglio chiederle scusa. Dille che l-le le v-voglio s-solo p-parlare
e-ecco!”
Lucy storse la bocca e sgranò gli occhi meravigliata: Alex che si
inginocchia, implora e balbetta? Ma quando mai! “Ma perché, maledizione?
Lasciala in pace!” gli domandò per far chiarezza su quella bizzarra situazione.
“Ma perché mi piace, no? Che domande idiote fai!” si stizzì il ragazzo
alzandosi in piedi.
“Aaaah! Ti piace, eh? Non è che ti sei preso una cotta?” lo prese in
giro Lucy.
“Chi? Io? Ma come ci pensi? Mi dispiace solo che si sia offesa. E dai!
Ti prego! E andiamo!” piagnucolò Alex.
Lucy sospirò rassegnata e cedette. “Va bene. Vedrò che posso fare.”
“Oh, grazie Lucy! Ti devo un favore! Grazie, grazie, grazie!” la
interruppe Alex, saltellando come un grillo, per poi soffocarla in un sudato abbraccio.
Alex andò in camerino a cambiarsi per tornare a casa, un po’ più
sereno e tranquillo. Forse aveva una speranza.
Elizabeth rientrò in casa più silenziosa che mai, dopo una folle corsa
al pronto soccorso per avere la pillola del giorno dopo. Era tardi e i suoi
genitori già dormivano. Non poteva, non doveva svegliarli. Avrebbero capito
subito ciò che le era successo: era trasandata, sudata, spettinata. E tesa come
una corda di violino. Nemmeno l’acqua bollente delle doccia riuscì a
distenderla. Mentre si asciugava i biondi e lunghi capelli di seta e si
infilava il pigiama, le rivenne in mente quel ragazzo, il modo in cui l’aveva
toccata e le forti emozioni che aveva provato assieme a lui. La scena che avevano
vissuto in macchina apparve nitida davanti ai suoi occhi, come se la stesse
rivivendo di nuovo. Più cercava di scacciare l’immagine, più questa le
riaffiorava alla memoria, ogni volta più a fuoco, ogni volta più reale,
facendola impazzire di dolore.
“Basta! Basta maledizione!” gridò disperata.
La sua stessa voce la riportò nella buia camera da letto. Si guardò
intorno spaesata e confusa. Era a casa sua. Nella propria stanza. Si portò una
mano alla bocca, maledicendosi per aver gridato in quel modo, sperando di non
aver svegliato i genitori. L’avrebbero riempita di domande. E lei non sapeva
mentire. Per fortuna, tutto intorno a lei taceva. Non l’avevano sentita. Si
gettò su letto di peso e iniziò a singhiozzare e a piangere inconsolabilmente.
Si vergognava più che mai di ciò che aveva fatto.
“Sono un mostro”, sussurrò a se stessa.
Pregò con tutta l’anima di non aver contratto malattie, ma stranamente
la cosa che più la tormentava non era tale preoccupazione. Ciò che la
ossessionava di più era il suo onore, l’aver perso la dignità con il primo
ragazzo che le era capitato, un perfetto sconosciuto. Un perfetto sconosciuto
di cui non conosceva nulla. Nemmeno il nome. Affascinante, certo, ma pur sempre
uno sconosciuto. Pianse per ore, prima di crollare pesantemente addormentata
con la guancia inzuppata di lacrime sul cuscino, stremata dalla disperazione e
dal pianto stesso. Si sentiva persa. Completamente persa. Vagante nell’oscurità
infinita.
Il mattino seguente si alzò con un gran mal di testa e con le parvenze
di un fantasma. Era pallida, gli occhi cerchiati, neri e gonfi, come se avesse
preso cento pugni in faccia. Si sentiva un vecchio rottame. Era completamente
indolenzita, i muscoli erano ridotti a sottili e flosci spaghetti pieni di
muffa. Per non parlare dell’effetto della pillola del giorno dopo. La botta di
ormoni si fece presto sentire con una pesante nausea che la portò persino a
vomitare lo colazione. O forse era semplicemente stato lui. Il panico. Lo
stress.
Nonostante ciò, raggiunse sua madre e l’intero corpo di ballo alla
scuola di danza, di cui era proprietaria, la scuola di danza in cui era
cresciuta, in cui aveva sempre trovato un rifugio per la sua anima in pena.
Quando danzava, entrava in una dimensione completamente sua, del tutto
estraniata dalla realtà, lasciando il mondo coi suoi guai all’esterno. Quel
giorno, ci avrebbe lasciato anche gli spettri.
“Elizabeth! Mio Dio, amore, ma che cosa hai fatto?” la travolse sua
madre preoccupata, quando la vide arrivare alle prove sbattuta come un cencio
vecchio e sporco.
Elizabeth si sforzò di mentire, nonostante le sue capacità di bugiarda
fossero molto scarse e di dare l’impressione che si sentisse meglio. “Non mi
sono sentita molto bene questa notte, mamma. Sono andata a cena fuori con Lucy,
come ti ho scritto nel messaggio e forse ho mangiato troppo.”
“Perché non torni a casa? Chiamo tuo padre e ti faccio accompagnare,
vuoi?” le propose Hilary molto più che preoccupata. Non aveva mai visto sua
figlia in condizioni tanto penose.
“No, mamma. Ti ringrazio. Abbiamo le prove per lo spettacolo e non
posso mancare. Penalizzerei Emile e tutta la compagnia. Inoltre, credo che la
danza sia quel che ci vuole per distr… Per rimettermi in sesto.”
“Come sei testarda, figlia mia! Fa’ come vuoi”, si arrese Hilary.
E in effetti, Elizabeth aveva ragione. Le prove furono talmente
impegnative, che non ebbe alcuna difficoltà a dimenticarsi per un po’
dell’affascinante cantante e del suo inebriante carisma. In verità, non ne ebbe
neanche il tempo. Per tutta la giornata, la scena in macchina insieme lui
scomparve dalla sua mente terrorizzata e ottusa. Si sentì finalmente tranquilla
e rilassata, dopo ore e ore di sofferente travaglio emotivo. Si fermò
addirittura un paio d’ore in più dopo le prove e le lezioni, per godere dei
benefici della danza. Aveva bisogno della sala da ballo più spaziosa della
scuola tutta per sé. E diede sfogo alle sue emozioni. Sfoderò una coreografia
frustrata e rabbiosa, piena di odio verso se stessa e quel ragazzo bello e
dannato che aveva osato subdolamente sedurla. Ma nonostante tutto, la grazia e l’eleganza
non l’abbandonarono. Era favolosa.
“E’ davvero molto bella!”
Una voce maschile e virile la interruppe proprio nel bel mezzo di una
sequenza ricca di passi inventati e originali. E la fece sobbalzare.
“Oh mio Dio! Emile...” ansimò Elizabeth. “Mi hai spaventata!”
“Scusami, non era mia intenzione.” Il giovane le si avvicinò e le
poggiò una mano sulla guancia. “Ti senti bene? Hai un aspetto orribile oggi.”
“Sì, sì sto bene. E’ solo un malessere passeggero. Mi sento già
meglio. Che ci fai ancora qui?”
“Volevo provare alcune sequenze per lo spettacolo. In alcune parti, in
cui non mi sento particolarmente sicuro ed espressivo. E tu?”
Elizabeth iniziò nervosamente a passeggiare per la stanza, tentando di
tenere nascosto e sigillato il suo segreto e oscuro stato d’animo. “Avevo
bisogno di liberare un po’ di emozioni negative e dar sfogo alla mia
creatività.”
Emile, suo partner nella danza e primo ballerino della compagnia, le
si avvicinò a pochi passi, ma a differenza di quanto le era accaduto col cantante,
Elizabeth non si irrigidì. Sapeva benissimo che Emile provava qualcosa per lei,
ma lo conosceva abbastanza bene da avere la certezza che non l’avrebbe mai
sfiorata con un dito, né che le avrebbe mai fatto proposte sfacciate. Emile era
un vero gentiluomo. Il gentiluomo che da sempre s’immaginava al suo fianco.
Eppure, non provava nulla per lui. Nulla, al di là di una grande stima come
collega.
“Da come stavi ballando, direi che ti senti male dentro. Sei
arrabbiata e piena d’odio. Che cos’hai?”
Elizabeth si stupì di se stessa e di come riuscisse a esprimersi con
la danza, di come questa fosse lo specchio della sua anima. E di come lui
l’avesse letta all’istante.
“Ehm, nulla. Ieri ho avuto una brutta giornata. Tutto qui.”
“Sei sicura? Non devi dirmi nulla?” la spronò Emile, nella speranza
che si aprisse con lui e di dare il via a quello che poteva essere un rapporto
andante al di là della professionalità.
Elizabeth si sforzò di abbozzare un tenero sorriso per confonderlo.
“Ma sì, certo. E’ solo una sciocchezza!”
“Perché non balliamo insieme? Magari, riesco a tirarti un po’ su”, si
offrì Emile speranzoso.
Lo sguardo dolce di Emile traboccava d’amore per lei. Avvicinò le
labbra alle sue come se volesse baciarla, ma non lo fece. Troppo cavaliere per
approfittarsi del suo malessere.
Elizabeth tirò un silenzioso sospiro di sollievo. “Sei gentile, Emile
e ti sono grata, ma preferirei di no. Ho bisogno di stare un po’ da sola.
Vedrai che domani andrà meglio. Vai a casa adesso. E riposati. Domani ci
aspetta una lunga giornata.”
“Ok. Chiamami, per qualunque cosa tu abbia bisogno, anche solo per
parlare e sfogarti. A qualunque ora. Ciao Liz. A domani!” si congedò Emile.
Elizabeth rimase in piedi davanti allo specchio per alcuni secondi.
“Ah, Liz!” esclamò Emile, tornando da lei. “La coreografia che stavi
improvvisando... Era davvero molto bella!” “Grazie”, si limitò a rispondergli.
Emile se ne andò deluso, come se sperasse non si sa cosa. Era
innamorato di Elizabeth da diversi anni, da quando era entrato nella compagnia
di ballo con lei. E non era mai nemmeno riuscito a strapparle un appuntamento.
Che strano! Eppure era un gran bel ragazzo: alto, fisico statuario, capelli
scuri, occhi neri... E soprattutto era proprio il tipo di ragazzo che sapeva
piacere a Elizabeth: educato, sensibile, rispettoso e perché no? Anche di buona
famiglia. Eppure lei non si era mai curata di lui, al di fuori del puro e
semplice rapporto professionale. Emile credeva che si trattasse solo di
timidezza: Elizabeth aveva sempre lo sguardo basso e le guanciotte rosse,
eccetto quando volteggiava in aria con la sua eleganza e leggiadria. Cosa che
riprese a fare non appena si assicurò che Emile fosse già lontano.
Elizabeth danzava e danzava... Danzava indisturbata, tirando fuori
tutta la sua sfera emozionale, riuscendo finalmente a cacciare le brutte
sensazioni e, sì, anche i brutti ricordi. La danza era la sua cura, la sua
medicina per tutto, anche per la tristezza e l’angoscia. Ora sì, che era
davvero tranquilla. Finalmente libera! Finalmente rinata! Si fermò e si guardò
nell’immenso specchio che si estendeva lungo tutta la parete più spaziosa della
stanza. Aveva ancora le occhiaie, anzi forse le erano addirittura peggiorate
dopo l’essersi volutamente sottoposta a una durissima giornata di ballo. Era
ancora pallida. Ma i segni dell’angoscia, spariti. Non portava più traccia del
brutto ricordo che infangava la sua persona. Era come se tale ricordo non appartenesse
più a lei, ma a qualcun’altra. Si portò le mani ai fianchi, soddisfatta. Poteva
sentire i pesanti respiri del fiatone farle l’eco per tutta la stanza. Afferrò
dalla sbarra il suo soffice asciugamano coccoloso e vi sprofondò il viso per
asciugarsi il sudore.
Ma il cellulare gridò.
“Pronto?” rispose distrattamente, senza nemmeno curarsi di leggere il
nome sullo schermo del telefono.
“Ciao Lizzy, sono io, Lucy!” la salutò l’amica.
“Ah, ciao Lucy! Scusami, ieri sera sono scappata senza neanche
salutarti”, se ne uscì Elizabeth impacciata e imbarazzata.
Lucy l’aveva sicuramente vista con quel cantante fascinoso. Chissà
cosa pensava di lei?
“Bah, non ti preoccupare! Ma piuttosto come stai?” le domandò Lucy
preoccupata.
“Bene, perché?” fece la finta tonta Elizabeth.
“No, no, niente. Ascolta, Lizzy” esordì timorosa Lucy. “Ambasciator
non porta pena. Il ragazzo di ieri sera, il cantante della band...”
Il solo sentirlo nominare fece ripiombare Elizabeth nell’oscura e
vorticosa voragine di terrore e di angoscia da cui era appena e a stento
uscita.
“Il ragazzo di ieri sera, il cantante della band... Beh, ecco... Vuole
rivederti!” riuscì a dirle finalmente Lucy.
Elizabeth sgranò gli occhi ormai spiritati dall’orrore di quelle
parole e si sentì mancare il fiato dai polmoni. “Che cosa? No, no! Mi dispiace!
Digli di no! Non voglio!” si agitò in preda al panico.
“Scusami, Elizabeth, io non volevo agitarti, ma mi ha implorato! O
meglio, mi ha rotto le scatole fino all’esaurimento nervoso, affinché ti
chiamassi!” le raccontò Lucy.
“Non fa niente, Lucy. Non è colpa tua. Tu non potevi saperlo. Non
avrei dovuto gridarti contro. Mi dispiace”, tentò di ricomporsi Elizabeth.
“Ma che ha fatto per farti arrabbiare così?” le chiese Lucy, non
capendoci più niente.
“Beh, ecco... Insomma...” balbettò Elizabeth, non sapendo cosa dire. Vergognandosi
di sé.
“Ho capito, ci ha provato! Sempre il solito, non si smentisce mai!
Avrei dovuto avvisarti, ma come potevo pensare che di mille ragazze, prendesse
di mira proprio te! Comunque ha detto che deve assolutamente parlarti di
persona e che vuole chiederti scusa”, le spiegò Lucy.
“Chiedermi scusa? Lo credo bene, ma non voglio vederlo. Non voglio
vederlo mai più!” lo respinse Elizabeth.
“Elizabeth, so che sei arrabbiata, ma lui è fatto così! In fondo non è
poi tanto male! Mi ha fatto pena, a dir la verità. Mi sembrava piuttosto
agitato e disperato. Ha detto che gli piaci”, tentò d’insistere Lucy. Che cosa
avrebbe detto ad Alex? E soprattutto, quando se lo sarebbe tolta dai piedi?
“Sì, me ne sono accorta! Ma ci saranno tante ragazze che gli piacciono,
quindi non vedo perché debba venire a seccare proprio me!” dedusse Elizabeth,
leggermente alterata e gelosa. Stranamente gelosa.
“In effetti, anche questo è vero, Lizzy”, ammise Lucy.
“Lo immaginavo. Ascolta Lucy, ti ringrazio per il gesto gentile e
carino nei confronti del tuo amico, ma ti prego. Digli pure che accetto le sue
scuse, ma che non voglio, nel modo più assoluto, mai più rivederlo per tutto il
resto della mia vita.” Elizabeth si sforzò di rimanere calma e dolce, ma alcune
lacrime le stavano giù rigando le gote.
“Ho capito, va bene. Ci vediamo domani per la lezione!” la salutò
Lucy.
“Ok, va bene. Ciao Lucy”, ricambiò Elizabeth, chiudendo la chiamata.
Gettò il telefono a terra e si accovacciò in un angolino buio e remoto
della stanza, a piangere. Era appena riuscita ad arrampicarsi a stento e a
risalire la voragine di vuoto dentro di sé, e già ci ricadeva. Ci ripiombò.
Quel gelido fantasma le fluttuava ancora intorno, inafferrabile come il fumo e
penetrante come scaglie di ghiaccio. Corse in bagno e vomitò. E pianse. E
pianse ancora. E ancora.
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