sabato 23 settembre 2017

Un manigoldo per genero - 2° puntata - di Ambra Tonnarelli


Dormivano. Dolcemente dormivano. Un ragazzo e una ragazza si stringevano nel sonno più profondo, l’uno accanto all’altra. In una macchina. Nella macchina di lui. Lenti i respiri. Sereni gli animi.
Ma, si sa, non è nell’indole della serenità durare a lungo.
Elizabeth aprì gli occhi di scatto e respirò agitatamente in preda al panico, come se le stesse mancando il fiato. Tutt’a un tratto, tornò in sé e si rese conto di quanto fosse accaduto, di ciò che aveva fatto. Lei, sì proprio lei che aveva sempre creduto all’amore cavalleresco d’altri tempi, lei così dignitosa e così timida, così pudica e così vergognosa! Proprio lei che aveva da sempre giurato a se stessa di concedersi solo al ragazzo che avrebbe amato e da cui sarebbe stata riamata! E perché no? Anche solo dopo il matrimonio. Era cresciuta con un’educazione “all’antica.” Si vergognò di se stessa e provò ribrezzo verso quella ripugnante azione, che aveva compiuto. Non era da lei. Si era praticamente concessa a un completo sconosciuto di cui non sapeva nulla. Neanche il nome. Era nel panico. Era nel panico più totale. Ma doveva assolutamente controllarsi o avrebbe rischiato di svegliare lui che dormiva pesantemente di fianco a lei. Si rivestì in fretta e alla meglio, leggera e silenziosa come il cigno quale era. Prese la sua borsa e aprì lo sportello. Lanciò un ultimo, fugace sguardo languido di passione e nostalgia a quel ragazzo dal fascino magnetico, come se da una parte non volesse più staccarsi di lui. Ma scese. Il panico aveva vinto. Il forte botto dello sportello rimbombò nelle orecchie del giovane cantante scavezzacollo, che da anni non dormiva tanto serenamente, risvegliandolo bruscamente e di soprassalto. Sussultò.
“Ma cosa...?” sussurrò in uno sbadiglio stropicciandosi gli occhi.
Si voltò, ma lei non c’era. Non c’era più.
Panico.
Si infilò alla meglio i pantaloni e scese, scrutando l’orizzonte con sguardo disperato, nella speranza di scorgere la sua ombra nell’oscurità. La vide. Vide la sua dolce fatina. Una scheggia nella notte. Era lontana. Già troppo lontana per raggiungerla di corsa o per far manovra con l’auto. 
“Ehi! Ehi! Aspetta! Aspetta, ti prego! Torna indietro! Ti prego torna indietro! Non mi abbandonare! Ti supplico, torna indietro! Non mi lasciare!” le gridò disperato a squarciagola con la possente voce che ogni sera sul palco accendeva i cuori del pubblico.
Elizabeth l’udì. Udì quella possente voce, che tanto l’aveva ammaliata e stregata. Ma il panico spezzò l’incantesimo, che fino a poco prima l’aveva ipnotizzata. Corse ancora più forte.
Egli vide la sua sagoma delicata sparire nel buio delle luce notturne, come un fantasma, uno spettro, senza lasciare traccia. Il giovane venne all’improvviso colto da un inaspettato sconforto. Si sentì solo, perso, abbandonato. Abbandonato dall’unica creatura in grado di lenire i mali della sua anima, dall’unica creatura in grado di placare i suoi fantasmi. Rientrò in macchina, lasciandosi cadere di peso su sedile al volante, a decidere sul da farsi. Ormai era troppo tardi per inseguirla. Chissà quale strada aveva imboccato? Fu in preda allo sconforto più grande, che aumentava esponenzialmente ogni secondo che passava. Non riusciva a spiegarsi quanto accaduto. Ci provò, ma non ci riuscì.
“Ma perché? Perché è scappata, maledizione? Siamo stati così bene insieme! Mio Dio... Non so neanche il suo nome!” si lamentò ad alta voce, picchiando il volante in segno di stizza. Una disperata stizza.
Si passò una mano tra i capelli rossicci e zuppi di sudore. 
“Dannazione! Ma perché è scappata? Cioè, voglio dire... Se non voleva, poteva fermarmi, no? Ci è stata senza batter ciglio! Allora le sono piaciuto e neanche poco, dico io! Quindi, ricapitolando: io ci ho spudoratamente provato, lei ci è spudoratamente stata. Lei mi è piaciuta, io le sono piaciuto. E insieme siamo stati bene. Allora perché è scappata? Valle a capire tu, le donne! Mi uccideranno prima o poi! Ora, ragioniamo. Come faccio a ritrovarla? Un momento... Ma perché poi devo ritrovarla? Cioè, è stata un’avventura di una notte, no? Troppe ne ho avute, di ragazze, senza vederle più dopo una sola volta! Se ci si può rivedere bene, sennò l’avventura finisce lì. Quindi, perché diavolo la voglio ritrovare? Devo essere impazzito! E’ stata un’avventura e basta! Stop! Però... Certo che se riuscissi a ritrovarla, con quel culo che ha... La vedrei volentieri qualche altra volta. Devo trovarla”, si disse per giustificare a se stesso tanta disperazione, per convincere se stesso che quella ragazza non gli avesse lasciato un segno profondo, che nessun’altra ragazza gli aveva, né gli avrebbe mai lasciato. La serenità.
Ma lei, chi era?
Si rinfilò la t-shirt sbracciata e scese dall’auto in preda alla disperazione più totale, non avendo la minima idea di come cominciare a cercarla. Decise che non sarebbe stata una cattiva idea incominciare dal locale. Rientrò.
“Alex Tennence!” tuonò una furia che lo travolse non appena rientrò dal retro del locale. Dopo un’ora! “Che fine ha fatto Elizabeth?” gli gridò contro con un cucchiaio di legno in mano. Armata di un innocuo, pericoloso cucchiaio di legno.
“Chi?” domandò Alex spaesato.
Ebbe poi un’illuminazione. Forse poteva ritrovare la sua dolce fatina con meno fatica del previsto. I ricordi prima del ballo rivennero a galla. Lucy. Era l’amica di Lucy.
“Elizabeth è la tua amica giusto? La dolce fatina bionda nell’angolo, con cui sono uscito poco fa?” le domandò speranzoso.
“Sì. Esatto, è una mia amica! Dov’è?” gli chiese spazientita Lucy, con le mani sui fianchi.
“Beh, ecco... E’ fuggita!” si vide costretto ad ammettere Alex.
“Fuggita? Ma come fuggita? Alex, che cosa le hai fatto?” Lucy lo fulminò con il suo sguardo sospettoso e indagatore. Conosceva fin troppo bene quel malandrino di Alex Tennence.
“Chi? Io? Nulla, non le ho fatto proprio nulla!” si stizzì Alex, incrociando le braccia indignato.
In effetti, aveva detto la verità. Non le aveva fatto nulla che lei non volesse.
“Alex, dai andiamo! Non prendermi per scema! Ti ho visto, mentre ballavi con lei! Come se non ti conoscessi! Ci hai provato vero?” lo beccò Lucy, ma solo in parte.
“Beh, ecco io... Sì, insomma, cioè no, ecco volevo dire...” balbettò Alex, intuendo che non fosse il caso di scendere nei dettagli dell’accaduto.
“Sei sempre il solito, Alex! Non cambi mai! Ma non lo sai che è timidissima? Di sicuro l’hai spaventata!” si agitò Lucy, gesticolando infervorata di rabbia.
“Appunto, allora devi aiutarmi a ritrovarla!” colse la palla a sbalzo l’intraprendente Alex.
Gli occhi di Lucy si ridussero a due fessure colme di ferocia. “Scor-da-te-lo! Se è scappata, vuol dire che non ti vuole più vedere, non ci arrivi?”
Alex le prese le mani disperato e si mise in ginocchio di fronte a lei. “Ti prego, Lucy! Domani chiamala e parlaci tu! Ti prego! Dille che le devo parlare. Voglio chiederle scusa. Dille che l-le le v-voglio s-solo p-parlare e-ecco!”
Lucy storse la bocca e sgranò gli occhi meravigliata: Alex che si inginocchia, implora e balbetta? Ma quando mai! “Ma perché, maledizione? Lasciala in pace!” gli domandò per far chiarezza su quella bizzarra situazione.
“Ma perché mi piace, no? Che domande idiote fai!” si stizzì il ragazzo alzandosi in piedi.
“Aaaah! Ti piace, eh? Non è che ti sei preso una cotta?” lo prese in giro Lucy.
“Chi? Io? Ma come ci pensi? Mi dispiace solo che si sia offesa. E dai! Ti prego! E andiamo!” piagnucolò Alex.
Lucy sospirò rassegnata e cedette. “Va bene. Vedrò che posso fare.”
“Oh, grazie Lucy! Ti devo un favore! Grazie, grazie, grazie!” la interruppe Alex, saltellando come un grillo, per poi soffocarla in un sudato abbraccio.
Alex andò in camerino a cambiarsi per tornare a casa, un po’ più sereno e tranquillo. Forse aveva una speranza.

Elizabeth rientrò in casa più silenziosa che mai, dopo una folle corsa al pronto soccorso per avere la pillola del giorno dopo. Era tardi e i suoi genitori già dormivano. Non poteva, non doveva svegliarli. Avrebbero capito subito ciò che le era successo: era trasandata, sudata, spettinata. E tesa come una corda di violino. Nemmeno l’acqua bollente delle doccia riuscì a distenderla. Mentre si asciugava i biondi e lunghi capelli di seta e si infilava il pigiama, le rivenne in mente quel ragazzo, il modo in cui l’aveva toccata e le forti emozioni che aveva provato assieme a lui. La scena che avevano vissuto in macchina apparve nitida davanti ai suoi occhi, come se la stesse rivivendo di nuovo. Più cercava di scacciare l’immagine, più questa le riaffiorava alla memoria, ogni volta più a fuoco, ogni volta più reale, facendola impazzire di dolore.
“Basta! Basta maledizione!” gridò disperata.
La sua stessa voce la riportò nella buia camera da letto. Si guardò intorno spaesata e confusa. Era a casa sua. Nella propria stanza. Si portò una mano alla bocca, maledicendosi per aver gridato in quel modo, sperando di non aver svegliato i genitori. L’avrebbero riempita di domande. E lei non sapeva mentire. Per fortuna, tutto intorno a lei taceva. Non l’avevano sentita. Si gettò su letto di peso e iniziò a singhiozzare e a piangere inconsolabilmente. Si vergognava più che mai di ciò che aveva fatto.
“Sono un mostro”, sussurrò a se stessa.
Pregò con tutta l’anima di non aver contratto malattie, ma stranamente la cosa che più la tormentava non era tale preoccupazione. Ciò che la ossessionava di più era il suo onore, l’aver perso la dignità con il primo ragazzo che le era capitato, un perfetto sconosciuto. Un perfetto sconosciuto di cui non conosceva nulla. Nemmeno il nome. Affascinante, certo, ma pur sempre uno sconosciuto. Pianse per ore, prima di crollare pesantemente addormentata con la guancia inzuppata di lacrime sul cuscino, stremata dalla disperazione e dal pianto stesso. Si sentiva persa. Completamente persa. Vagante nell’oscurità infinita.
Il mattino seguente si alzò con un gran mal di testa e con le parvenze di un fantasma. Era pallida, gli occhi cerchiati, neri e gonfi, come se avesse preso cento pugni in faccia. Si sentiva un vecchio rottame. Era completamente indolenzita, i muscoli erano ridotti a sottili e flosci spaghetti pieni di muffa. Per non parlare dell’effetto della pillola del giorno dopo. La botta di ormoni si fece presto sentire con una pesante nausea che la portò persino a vomitare lo colazione. O forse era semplicemente stato lui. Il panico. Lo stress.
Nonostante ciò, raggiunse sua madre e l’intero corpo di ballo alla scuola di danza, di cui era proprietaria, la scuola di danza in cui era cresciuta, in cui aveva sempre trovato un rifugio per la sua anima in pena. Quando danzava, entrava in una dimensione completamente sua, del tutto estraniata dalla realtà, lasciando il mondo coi suoi guai all’esterno. Quel giorno, ci avrebbe lasciato anche gli spettri.
“Elizabeth! Mio Dio, amore, ma che cosa hai fatto?” la travolse sua madre preoccupata, quando la vide arrivare alle prove sbattuta come un cencio vecchio e sporco.
Elizabeth si sforzò di mentire, nonostante le sue capacità di bugiarda fossero molto scarse e di dare l’impressione che si sentisse meglio. “Non mi sono sentita molto bene questa notte, mamma. Sono andata a cena fuori con Lucy, come ti ho scritto nel messaggio e forse ho mangiato troppo.”
“Perché non torni a casa? Chiamo tuo padre e ti faccio accompagnare, vuoi?” le propose Hilary molto più che preoccupata. Non aveva mai visto sua figlia in condizioni tanto penose.
“No, mamma. Ti ringrazio. Abbiamo le prove per lo spettacolo e non posso mancare. Penalizzerei Emile e tutta la compagnia. Inoltre, credo che la danza sia quel che ci vuole per distr… Per rimettermi in sesto.”
“Come sei testarda, figlia mia! Fa’ come vuoi”, si arrese Hilary.
E in effetti, Elizabeth aveva ragione. Le prove furono talmente impegnative, che non ebbe alcuna difficoltà a dimenticarsi per un po’ dell’affascinante cantante e del suo inebriante carisma. In verità, non ne ebbe neanche il tempo. Per tutta la giornata, la scena in macchina insieme lui scomparve dalla sua mente terrorizzata e ottusa. Si sentì finalmente tranquilla e rilassata, dopo ore e ore di sofferente travaglio emotivo. Si fermò addirittura un paio d’ore in più dopo le prove e le lezioni, per godere dei benefici della danza. Aveva bisogno della sala da ballo più spaziosa della scuola tutta per sé. E diede sfogo alle sue emozioni. Sfoderò una coreografia frustrata e rabbiosa, piena di odio verso se stessa e quel ragazzo bello e dannato che aveva osato subdolamente sedurla. Ma nonostante tutto, la grazia e l’eleganza non l’abbandonarono. Era favolosa.
“E’ davvero molto bella!”
Una voce maschile e virile la interruppe proprio nel bel mezzo di una sequenza ricca di passi inventati e originali. E la fece sobbalzare.
“Oh mio Dio! Emile...” ansimò Elizabeth. “Mi hai spaventata!”
“Scusami, non era mia intenzione.” Il giovane le si avvicinò e le poggiò una mano sulla guancia. “Ti senti bene? Hai un aspetto orribile oggi.”
“Sì, sì sto bene. E’ solo un malessere passeggero. Mi sento già meglio. Che ci fai ancora qui?”
“Volevo provare alcune sequenze per lo spettacolo. In alcune parti, in cui non mi sento particolarmente sicuro ed espressivo. E tu?”
Elizabeth iniziò nervosamente a passeggiare per la stanza, tentando di tenere nascosto e sigillato il suo segreto e oscuro stato d’animo. “Avevo bisogno di liberare un po’ di emozioni negative e dar sfogo alla mia creatività.”
Emile, suo partner nella danza e primo ballerino della compagnia, le si avvicinò a pochi passi, ma a differenza di quanto le era accaduto col cantante, Elizabeth non si irrigidì. Sapeva benissimo che Emile provava qualcosa per lei, ma lo conosceva abbastanza bene da avere la certezza che non l’avrebbe mai sfiorata con un dito, né che le avrebbe mai fatto proposte sfacciate. Emile era un vero gentiluomo. Il gentiluomo che da sempre s’immaginava al suo fianco. Eppure, non provava nulla per lui. Nulla, al di là di una grande stima come collega.
“Da come stavi ballando, direi che ti senti male dentro. Sei arrabbiata e piena d’odio. Che cos’hai?”
Elizabeth si stupì di se stessa e di come riuscisse a esprimersi con la danza, di come questa fosse lo specchio della sua anima. E di come lui l’avesse letta all’istante.
“Ehm, nulla. Ieri ho avuto una brutta giornata. Tutto qui.”
“Sei sicura? Non devi dirmi nulla?” la spronò Emile, nella speranza che si aprisse con lui e di dare il via a quello che poteva essere un rapporto andante al di là della professionalità.
Elizabeth si sforzò di abbozzare un tenero sorriso per confonderlo. “Ma sì, certo. E’ solo una sciocchezza!”
“Perché non balliamo insieme? Magari, riesco a tirarti un po’ su”, si offrì Emile speranzoso.
Lo sguardo dolce di Emile traboccava d’amore per lei. Avvicinò le labbra alle sue come se volesse baciarla, ma non lo fece. Troppo cavaliere per approfittarsi del suo malessere.
Elizabeth tirò un silenzioso sospiro di sollievo. “Sei gentile, Emile e ti sono grata, ma preferirei di no. Ho bisogno di stare un po’ da sola. Vedrai che domani andrà meglio. Vai a casa adesso. E riposati. Domani ci aspetta una lunga giornata.”
“Ok. Chiamami, per qualunque cosa tu abbia bisogno, anche solo per parlare e sfogarti. A qualunque ora. Ciao Liz. A domani!” si congedò Emile.
Elizabeth rimase in piedi davanti allo specchio per alcuni secondi.
“Ah, Liz!” esclamò Emile, tornando da lei. “La coreografia che stavi improvvisando... Era davvero molto bella!” “Grazie”, si limitò a rispondergli.
Emile se ne andò deluso, come se sperasse non si sa cosa. Era innamorato di Elizabeth da diversi anni, da quando era entrato nella compagnia di ballo con lei. E non era mai nemmeno riuscito a strapparle un appuntamento. Che strano! Eppure era un gran bel ragazzo: alto, fisico statuario, capelli scuri, occhi neri... E soprattutto era proprio il tipo di ragazzo che sapeva piacere a Elizabeth: educato, sensibile, rispettoso e perché no? Anche di buona famiglia. Eppure lei non si era mai curata di lui, al di fuori del puro e semplice rapporto professionale. Emile credeva che si trattasse solo di timidezza: Elizabeth aveva sempre lo sguardo basso e le guanciotte rosse, eccetto quando volteggiava in aria con la sua eleganza e leggiadria. Cosa che riprese a fare non appena si assicurò che Emile fosse già lontano.
Elizabeth danzava e danzava... Danzava indisturbata, tirando fuori tutta la sua sfera emozionale, riuscendo finalmente a cacciare le brutte sensazioni e, sì, anche i brutti ricordi. La danza era la sua cura, la sua medicina per tutto, anche per la tristezza e l’angoscia. Ora sì, che era davvero tranquilla. Finalmente libera! Finalmente rinata! Si fermò e si guardò nell’immenso specchio che si estendeva lungo tutta la parete più spaziosa della stanza. Aveva ancora le occhiaie, anzi forse le erano addirittura peggiorate dopo l’essersi volutamente sottoposta a una durissima giornata di ballo. Era ancora pallida. Ma i segni dell’angoscia, spariti. Non portava più traccia del brutto ricordo che infangava la sua persona. Era come se tale ricordo non appartenesse più a lei, ma a qualcun’altra. Si portò le mani ai fianchi, soddisfatta. Poteva sentire i pesanti respiri del fiatone farle l’eco per tutta la stanza. Afferrò dalla sbarra il suo soffice asciugamano coccoloso e vi sprofondò il viso per asciugarsi il sudore.
Ma il cellulare gridò.
“Pronto?” rispose distrattamente, senza nemmeno curarsi di leggere il nome sullo schermo del telefono.
“Ciao Lizzy, sono io, Lucy!” la salutò l’amica.
“Ah, ciao Lucy! Scusami, ieri sera sono scappata senza neanche salutarti”, se ne uscì Elizabeth impacciata e imbarazzata.
Lucy l’aveva sicuramente vista con quel cantante fascinoso. Chissà cosa pensava di lei?
“Bah, non ti preoccupare! Ma piuttosto come stai?” le domandò Lucy preoccupata.
“Bene, perché?” fece la finta tonta Elizabeth.
“No, no, niente. Ascolta, Lizzy” esordì timorosa Lucy. “Ambasciator non porta pena. Il ragazzo di ieri sera, il cantante della band...”
Il solo sentirlo nominare fece ripiombare Elizabeth nell’oscura e vorticosa voragine di terrore e di angoscia da cui era appena e a stento uscita.
“Il ragazzo di ieri sera, il cantante della band... Beh, ecco... Vuole rivederti!” riuscì a dirle finalmente Lucy.
Elizabeth sgranò gli occhi ormai spiritati dall’orrore di quelle parole e si sentì mancare il fiato dai polmoni. “Che cosa? No, no! Mi dispiace! Digli di no! Non voglio!” si agitò in preda al panico.
“Scusami, Elizabeth, io non volevo agitarti, ma mi ha implorato! O meglio, mi ha rotto le scatole fino all’esaurimento nervoso, affinché ti chiamassi!” le raccontò Lucy.
“Non fa niente, Lucy. Non è colpa tua. Tu non potevi saperlo. Non avrei dovuto gridarti contro. Mi dispiace”, tentò di ricomporsi Elizabeth.
“Ma che ha fatto per farti arrabbiare così?” le chiese Lucy, non capendoci più niente.
“Beh, ecco... Insomma...” balbettò Elizabeth, non sapendo cosa dire. Vergognandosi di sé.
“Ho capito, ci ha provato! Sempre il solito, non si smentisce mai! Avrei dovuto avvisarti, ma come potevo pensare che di mille ragazze, prendesse di mira proprio te! Comunque ha detto che deve assolutamente parlarti di persona e che vuole chiederti scusa”, le spiegò Lucy.
“Chiedermi scusa? Lo credo bene, ma non voglio vederlo. Non voglio vederlo mai più!” lo respinse Elizabeth.
“Elizabeth, so che sei arrabbiata, ma lui è fatto così! In fondo non è poi tanto male! Mi ha fatto pena, a dir la verità. Mi sembrava piuttosto agitato e disperato. Ha detto che gli piaci”, tentò d’insistere Lucy. Che cosa avrebbe detto ad Alex? E soprattutto, quando se lo sarebbe tolta dai piedi?
“Sì, me ne sono accorta! Ma ci saranno tante ragazze che gli piacciono, quindi non vedo perché debba venire a seccare proprio me!” dedusse Elizabeth, leggermente alterata e gelosa. Stranamente gelosa.
“In effetti, anche questo è vero, Lizzy”, ammise Lucy.
“Lo immaginavo. Ascolta Lucy, ti ringrazio per il gesto gentile e carino nei confronti del tuo amico, ma ti prego. Digli pure che accetto le sue scuse, ma che non voglio, nel modo più assoluto, mai più rivederlo per tutto il resto della mia vita.” Elizabeth si sforzò di rimanere calma e dolce, ma alcune lacrime le stavano giù rigando le gote.
“Ho capito, va bene. Ci vediamo domani per la lezione!” la salutò Lucy.
“Ok, va bene. Ciao Lucy”, ricambiò Elizabeth, chiudendo la chiamata.

Gettò il telefono a terra e si accovacciò in un angolino buio e remoto della stanza, a piangere. Era appena riuscita ad arrampicarsi a stento e a risalire la voragine di vuoto dentro di sé, e già ci ricadeva. Ci ripiombò. Quel gelido fantasma le fluttuava ancora intorno, inafferrabile come il fumo e penetrante come scaglie di ghiaccio. Corse in bagno e vomitò. E pianse. E pianse ancora. E ancora. 

Nessun commento:

Posta un commento

Come foglie al vento - Episodio 732 di Nunzio Palermo

   è presentato da   Come foglie al vento # 732 Episode 732 Season 4 Original Date ...