sabato 30 settembre 2017

Un manigoldo per genero - 3° puntata - di Ambra Tonnarelli


Non era trascorso molto tempo da quando Lucy aveva chiamato Elizabeth, ma Alex era già pronto all’arrembaggio per riscuotere notizie. Lucy non ne poteva più di lui! Era dal mattino presto che Alex le ronzava intorno per sapere se fosse riuscita a contattare la sua amica. E ogni volta la risposta era sempre stata la stessa. Negativa.
“Allora? Allora l’hai chiamata?” le domandò Alex per l’ennesima volta nella speranza di udire una risposta differente da quella udita per tutto l’arco della giornata.
Alex era completamente nelle fameliche fauci dell’ansia, in preda all’agitazione e alla confusione più totale, come se non riuscisse più a contenere la gioia di rivedere ancora una volta Elizabeth. Era per lui scontato che la risposta fosse sì.
“Sì, Alex. Ci ho parlato poco fa.”
“E allora? Che ti ha detto? Quando ci vediamo?”
Nemmeno l’espressione mortificata e il tono dispiaciuto di Lucy gli aprirono gli occhi sulla realtà dei fatti: nel suo cuore, Alex avrebbe solo voluto sentirsi dire che Elizabeth aveva accettato di vederlo, come se fosse un fatto sicuro e scontato.
“Mai, Alex. Mai. Mi dispiace”, gli confessò mortificata.
“Ma come mai? Come sarebbe a dire? No, no! Tu ti sbagli!” si agitò il giovane Alex.
“E invece no, Alex, mi dispiace per te. Elizabeth è stata molto chiara: ha detto che accetta le tue scuse, ma che non vuole rivederti mai più.”
Il volto di Alex si incupì all’improvviso, la luce d’allegria che brillava in lui si spense, come se avesse appena visto la morte in faccia. “No, no! Non può essere! Fa’ un altro tentativo! Ti prego!”
“Alex, non posso! Mi è sembrata piuttosto agitata e, ti assicuro, non è da lei! Ma che cosa le hai fatto per farla arrabbiare così?”
“Chi? Io? N-nulla!”
“Non è che per caso l’hai violentata?” buttò lì Lucy, per fargli vuotare il sacco.
“Ma che cosa vai a pensare! Don Giovanni sì, ma stupratore proprio no! E che non si dica che Alex abbia mai toccato una ragazza contro la sua volontà!” le gridò, offeso.
“Mai toccato... Contro la sua volontà... Non vorrai mica dire...”
“Sì, esatto! Che io ci ho provato e lei c’è stata. Stop!”
“Ma come c’è stata? Elizabeth?” si sconvolse Lucy.
“Eh, Elizabeth!” annuì Alex.
“Elizabeth è davvero stata con te, senza opporre alcuna resistenza?”
“Sì, sì, esatto! Proprio così!”
“Ma che cosa stai dicendo, Alex? Ah, ho capito! Ho capito! Tu l’hai minacciata, vero? Sì. Sì, deve essere andata proprio così!” suppose Lucy, arrampicandosi sugli specchi, non riuscendo a trovare spiegazione al comportamento inusuale e inconsueto di Elizabeth. La conosceva abbastanza bene, da poter dire che avrebbe senz’altro atteso il matrimonio per fare un passo tanto importante per lei.
“Ma che minacciata, Lucy! Abbiamo ballato, si è fatta toccare un po’, poi siamo andati in macchina, io l’ho baciata, lei ha ricambiato il bacio e siamo stati insieme. Punto, fine della storia! Evidentemente le sono piaciuto, così come lei è piaciuta a me”, le spiegò Alex risentito e offeso.
“Oh mio Dio! Ecco perché era così sconvolta, poverina! Ma non l’hai vista? Non lo sai che è timidissima? Che non era mai nemmeno uscita con un ragazzo?” s’infuriò Lucy.
“L’hai rovinata! Sei un mascalzone, un farabutto!” gli urlò contro, spintonandolo arrabbiata.
“Ma che rovinata, Lucy! Siamo stati benissimo insieme! E poi che ne sapevo io, che si faceva tutti questi problemi per un rapporto con un ragazzo? Mica leggo nel pensiero, io! Che è timida, l’avevo capito! Ma troppe ne ho avute di ragazze timide! La timidezza non è mai stata un problema per me!”
“Non ho parole, Alex. Davvero non ho parole. Ha detto anche che con tutte le ragazze che hai, appunto, non devi seccare proprio lei!” gli riferì.
“E invece sì, secco proprio lei, perché mi piace! E mi è piaciuta molto più delle altre! Io la devo rivedere! Ti prego! Anche solo un’altra volta! Ti supplico, Lucy! Sono disperato! Aiutami!”
Stava piangendo. Alex stava davvero piangendo. Ma Alex non piangeva mai.
Lucy rimase a bocca aperta. Stava fingendo? O piangeva sul serio? No. No, non stava affatto fingendo. Alex era un gran birichino, ma di certo non era un bugiardo. Non aveva mai mentito a nessuno in tutta la sua vita; per lo meno da quando Lucy lo aveva conosciuto, non lo aveva mai visto fingere o sentito mentire.
“Alex, senti. Io vorrei tanto aiutarti, ma Elizabeth è mia amica...”
“Anche io sono tuo amico, che diamine!”
“Alex, io non ci voglio entrare in questa storia. Una domanda però te la voglio proprio fare. Non hai visto come balla?” gli spifferò, mettendogli, così, una pulce nell’orecchio. Voleva bene a entrambi. Era l’unico modo per non lasciarlo a bocca asciutta, senza tradire la fiducia di Elizabeth.
“Come balla?” Alex la fissò come se fosse impazzita. Poi ci rifletté su. “Come balla...”
Un lampo, un fulmine, un flash! La scena di loro due che danzavano lo colpì in pieno viso, come un pugno scagliato con una forza sovrumana.
“E’ una ballerina!” esclamò entusiasta. “E’ una ballerina, ma certo! Come ho fatto a non pensarci? Che scemo! Ma ci saranno migliaia di balli! Ballerina di cosa? Dimmi di più!”
Alex stava inseguendo la povera Lucy per tutto il locale e la stava persino aiutando coi vassoi pur di farle vuotare il sacco e starle appiccicato come un’inutile zecca.
“Mmmm! Alex, che pizze! Non posso dirtelo! Però, ti voglio fare un’altra domanda. Non le hai guardato i piedi, salame?”
“I piedi... O Santi Numi! Per tutte le chitarre!” Un’altra illuminazione. “Quando volteggiava si metteva sempre in equilibrio sulle punte. Aveva sempre le punte tese! E’ una ballerina di danza classica, vero?”
Alex non stava più nella pelle dall’entusiasmo. Ora poteva cercarla da solo. Non gli serviva nient’altro.
“Non lo so, Alex. Non posso dirtelo.”
“Ma sì! Sì. Inizierò a cercarla nelle compagnie migliori della città! Ah, grazie Lucy! Prometto che non ti manderò di mezzo! Grazie, grazie, grazie!”
Saltellò per tutto il locale come un grillo appena sveglio, corse ad abbracciarla, rovesciando così tre o quattro vassoi e rompendo non si sa quanti piatti e bicchieri. Il solito combinaguai!
“Oddio… Però...” si disse tra sé e sé dirigendosi verso l’uscita. “Spero che non mi scappi di nuovo.”
Il suo umore mutò repentinamente colore, dal bianco più splendente al nero più tetro. “Meglio non pensarci! Berrò un goccetto e me ne tornerò a casa!” si consolò per distrarsi.

Buio. Fuori era buio. Così come l’animo di Elizabeth. Era rimasta lì, accovacciata nell’angolo, a piangere con le ginocchia strette al petto e il volto sprofondato nella piccola nicchia. Tormentata dai suoi spettri. L’aver sentito nominare quel cantante aveva risvegliato in lei dei freschi e orrendi ricordi di trauma, che avrebbe soltanto dovuto cancellare. Ma la mente umana, la sfera emozionale umana... Non sono dei computer, in cui è sufficiente premere un pulsante per eliminare ciò che si vuole eliminare. Al contrario. Ciò che si vuole eliminare, torna sempre a galla a tormentarci. Proprio come stava accadendo alla povera Elizabeth, che proprio si rifiutava, testarda, di accettare ciò che aveva fatto. Ciò che aveva provato.
“Liz! Ma Liz, sei ancora qui? Mi sono cadute le chiavi di casa nell’armadietto e sono tornato a prenderle!”
La voce di Emile risuonò per tutto il corridoio, ma lei non si mosse di una virgola, né rispose. Sentiva i passi di Emile che seguivano la luce accesa nella sua sala da ballo.
“Oh mio Dio!” esclamò Emile preoccupato e scosso vedendola lì, rannicchiata in quell’angolino nella penombra, che piangeva disperata e inconsolabile. Con un fulmineo e cavalleresco scatto, si gettò in ginocchio di fronte a lei.
“Liz! Liz, ma che ti succede? Stai male?” le domandò preoccupatissimo.
Elizabeth non fu in grado di rispondere. Non fu in grado di parlare. Le convulsioni le stroncarono le parole in gola. Scosse vistosamente la testa, in segno di no.
“Beh, non mi sembra che tu stia bene. Ma che ti è successo, Liz? Ti prego, dimmelo. Io voglio solo aiutarti e starti vicino.”
La sua voce le trasmise amore e dolcezza, la sicurezza di un conforto di cui aveva un disperato bisogno. Questo le diede la forza di parlare. Tra le lacrime.
“Non posso dirtelo, Emile. Non posso dirtelo. Non posso dirlo a nessuno!”
“A me puoi dirlo! Mio Dio, Liz. Qualcuno ti ha fatto del male? Qualcuno ti ha forse messo le mani addosso? Parlami Liz. Di me puoi fidarti.”
“Sì, qualcuno mi ha messo le mani addosso, perché io, non solo gliel’ho lasciato fare, ma l’ho anche voluto. Con tutta me stessa”, pensò Elizabeth tra sé e sé.
Era quella la verità. Quella verità, che avrebbe tanto voluto rivelare a qualcuno, come per alleggerire se stessa da un pesante macigno, che stava diventando sempre più difficile riuscire a portare da sola. Ma non poteva dirlo a nessuno. Tanto meno a Emile.
Elizabeth si limitò a scuotere di nuovo, inesorabilmente, il capo. “No, no! Stai tranquillo! Non è niente di tutto questo. Niente del genere. Sto male dentro, è un male dell’anima, ma non posso dirti cos’è. Mi dispiace, non posso dirlo a nessuno. Né alle mie amiche più care, né a mia madre, né a mio padre. E ti pregherei di non dir loro che mi hai vista in questo stato. Ti supplico!”
“Ma a tuo padre, tu hai sempre detto tutto”, le fece notare premuroso Emile, nella speranza che Elizabeth trovasse la forza di parlare con suo padre, l’unico forse in grado di aiutarla. Perché suo padre era in grado di aiutare tutti.
“Lo so, ma questa volta no. Non è niente di grave e niente di illecito, se ti preme saperlo. Ma non posso dirlo a nessuno. Ho i miei motivi. E non chiedermi altro, per favore.”
Emile annuì con un cenno del capo. “Ok. Rispetto la tua decisione. Sei una persona sincera e cristallina. Se non puoi parlarne con nessuno, vuol dire che davvero non puoi”, la rassicurò, mentre le porse un fazzoletto per asciugarsi il viso zuppo di lacrime. “Magari tu non puoi dirmelo, però... Io potrei comunque accompagnarti a casa. Vuoi?” si offrì poi.
Elizabeth gli sorrise dolcemente: Emile era sempre gentile e premuroso con tutti, con lei in particolar modo.
“No, grazie, Emile. Devo ancora fare la doccia. E’ tardi. Ti farei solo perdere tempo”, gli spiegò, non volendo scomodarlo.
“Non dirlo neanche per scherzo, Liz! Ti aspetterò qui, mentre fai la doccia e ti accompagnerò a casa. Mi farebbe piacere aiutarti, almeno in questo modo!” Le prese il viso tra le mani e la guardò intensamente negli occhi. “Ti prego, Liz. Concedimi questo onore.”
Onore?
Già, ciò che lei non aveva più. Ciò che aveva svenduto per un niente a quel cantante sconosciuto, di cui non conosceva nulla. Nemmeno il nome.
Emile avrebbe considerato un onore accompagnare lei a casa? Lei? Era davvero un cavaliere, come ne aveva sempre cercati. Eppure non le piaceva. Ma fu così colpita dalle sue parole, che le parve comunque un oltraggio alla sua persona dirgli di no.
“Va bene, Emile. Non posso che ringraziarti.”
“Brava”, le sussurrò, scoccandole un sonoro bacio sulla fronte, dopo averla aiutata ad alzarsi da terra. “Va’ pure a farti la doccia. Con calma, senza fretta. Io ti aspetto fuori dallo spogliatoio.”

Era parecchio tardi, buio. Ma Los Angeles non sembrava affatto aver sonno. Anzi, era più sveglia che mai. Un giocoso brilluccichio di luci danzava in ogni dove della città: negozi, pub, ristoranti, grattacieli, auto e chi più ne ha più ne metta.
Il commissario di polizia Albert Reeves si apprestava a controllare gli ultimi rapporti e andare a casa. Era talmente concentrato, che non sentiva nemmeno la voce della strada vicina, la quale, con i suoi clacson e motori, insieme a un continuo squillare di telefoni negli uffici circostanti, donava anima propria alla centrale. L’agente Barney, sottostimato collega di Reeves, dovette bussare tre o quattro volte per attirare la sua attenzione.
“Avanti!” rispose autoritario Albert.
“Buonasera commissario. Mi dispiace disturbarla. Non le farà piacere saperlo, ma... Ci sarebbe quell’Alex... Di nuovo!” gli disse Barney con un filo di timore nella voce.
Il volto di Albert, dai lineamenti regolari, ma duri e marcati, si tinse repentinamente di rosso rabbia e poi di blu esasperazione. “Che cosa? Ancora quel delinquente? Che ha fatto questa volta, il manigoldo?” sbottò.
Era un uomo paziente e tutto d’un pezzo, ma quando c’era di mezzo quell’Alex... Quell’Alex dei suoi stivali, proprio non poteva soffrirlo. Era l’unico in grado di scomporlo. L’unico in grado di far esplodere i suoi nervi saldi, che da sempre costituivano un punto di riferimento per tutto il corpo di polizia.
“Guida pericolosa in stato di ebbrezza con eccesso di velocità, commissario! E’ ubriaco fradicio e andava oltre i cento chilometri orari in una strada secondaria della periferia. Non si è fermato nemmeno al semaforo e ha quasi investito un gruppo di pedoni che stava attraversando su un’area pedonale”, spiegò Barney a macchinetta, mentre si posizionava in piedi vicino alla scrivania di Reeves e mentre un altro paio di agenti scortavano nell’ufficio un Alex parecchio euforico, ma ancora abbastanza lucido da stare in piedi e ragionare, nonostante il mix di super-alcolici che si era volutamente ingoiato.
“Buonasera, Alex!” lo salutò sarcastico Albert. “Di’ un po’... Ti ci vuoi trasferire qui dentro?”
“Salve capo! Hic! Le sono mancato?” rispose il ragazzo tra i singhiozzi da sbronza.
“Da morire, guarda. Non sapevo che altro fare qui, senza di te. Allora, veniamo a noi. Ma guarda come ti sei ridotto!” esclamò furibondo, squadrandolo dall’alto al basso.
“Non è colpa mia capo! Hic! E’ colpa di quella ragazza!” si giustificò Alex tra i singhiozzi.
“Ragazza? Quale ragazza? Ma che cosa vai farfugliando?” gli domandò Albert a occhi sgranati.
“Sì, capo! Hic! La ragazza non è voluta uscire con me e io ho bevuto un po’! Hic! E’ lei che dovrebbe arrestare, non me! Se vuole, le dico il nome. Il cognome no, perché non lo so! Hic!”
“Ma che mi frega, a me, del nome! Arrestarla! Tzè! Se dovessi incontrarla per strada, le direi “Brava! Brava!” Ci vuole un bel cervello per uscire con un manigoldo come te! Se fossi il padre di quella ragazza, ti assicuro che ti ucciderei! Allora, fategli una bella multa e portatelo dentro per la notte. Stasera dormi in cella caro, mio!”
“Su via, capo! Hic!” –protestò Alex, indignato- “Non faccia lo stronzo!”
I poliziotti risero sotto i baffi nel vedere il loro superiore diventare paonazzo, lui che era un uomo tutto d’un pezzo. Sbattergli in faccia tale sfacciataggine. Era una cosa da pazzi.
“Stronzo? Ma come ti permetti, manigoldo!”
“Via, via capo! Hic! Non se la prenda tanto a male! Hic! Io le ho detto di non fare lo stronzo, mica che lo è! Anche se in effetti, lei, stronzo, lo è veramente! Hic!”
Gli occhi di Albert si spiritarono e uscirono dalle orbite per la rabbia. Non avrebbe chiesto niente di meglio che riempirlo di botte, ma doveva controllarsi. A stento ci riuscì.
“Questo è oltraggio a pubblico ufficiale! Questa volta la galera non te la leva nessuno caro mio!” urlò furioso e infastidito dalla sua strafottenza.
“Ma capo! Hic! Io devo trovare la ragazza e convincerla a uscire con me! Hic!” protestò Alex tra i singhiozzi.
“Ma quale ragazza e ragazza? Lasciala in pace quella povera disgraziata, chiunque essa sia! Portatelo via!” ordinò aggressivo e in maniera alquanto autorevole e perentoria ai due agenti, che lo avevano scortato da lui.
Ma Alex era un tipo che non si dava mai per vinto e che voleva sempre avere l’ultima parola.
“Buona notte, capo!” esclamò quando fu sulla soglia dell’ufficio, alzandogli il dito medio.
Albert spezzò in due con un grugno di rabbia la matita che teneva in mano.
“Commissario, ha visto? L’ha mandata a quel paese!” esclamò il collega Barney, in un misto di stupore, divertimento e disgusto.
“L’ho visto, l’ho visto, Barney. Grazie dell’informazione, ma ce li ho anch’io gli occhi!” si stizzì Albert.
“E perché non gli ha detto nulla, allora?” gli domandò Barney.
“Perché altrimenti lo uccido. Rischio di compromettermi la carriera con quella feccia di un manigoldo!” gli spiegò Albert, battendo il pugno sulla scrivania.
Tentò di ricomporsi per il suo bene e quello di tutto il dipartimento. Come un automa, si obbligò a riprendere il suo lavoro, come se nulla fosse accaduto. Ma non ci riuscì. Per i primi dieci minuti, tutto andò bene, ma poi gli rivenne in mente la strafottente espressione di Alex, il suo sorrisetto di scherno e la sua impertinente faccia di bronzo, mentre molto più che ciucco gli alzava il dito medio, augurandogli la buona notte in tono da presa in giro. Diede un calcio al bidoncino della carta accanto alla scrivania e si alzò, passeggiando nervosamente avanti e indietro davanti alla finestra, fino a consumare il pavimento.

Lo specchio rifletteva il fantasma dall’aspetto tetro e spettrale che era in lei. Mentre si spazzolava i lunghi capelli di miele prima di andare a dormire, Elizabeth non riusciva a smettere di fissare le sue orribili occhiaie da zombie. Erano peggiorate parecchio rispetto al mattino a causa degli sforzi fisici e dei continui pianti, che non era mai riuscita a reprimere. Era talmente sfinita e disperata che non era più in grado nemmeno di piangere. O forse aveva soltanto esaurito la sua scorta di lacrime. Nonostante tutto, la dolcezza e la cavalleria di Emile l’avevano fatta sentire leggermente più distesa. Era davvero un bravo ragazzo, un collega impagabile e un ballerino veramente straordinario e fuori del comune. Da diversi anni Elizabeth lo aveva al suo fianco nel ruolo di primo ballerino negli spettacoli, cosa che non le dispiaceva affatto, anzi. Data la sua persona, per Elizabeth lavorare con Emile era un vero piacere; c’era molta intesa tra loro, ballavano bene insieme. Erano proprio una bella coppia. Una bella coppia solo nella danza. Emile, però, avrebbe voluto che le cose andassero diversamente. Avrebbe tanto voluto che lui ed Elizabeth formassero una coppia altrettanto bella anche al di fuori della danza. E questo, Elizabeth, lo aveva intuito da sempre. Nonostante lei lo considerasse l’uomo ideale, non le era mai balenato per la testa, anzi, per il cuore, di ricambiare il suo sentimento. Chissà poi per quale strana ragione. La sua mente divagava, immersa in quei pensieri, mentre continuava a spazzolarsi, ormai a vuoto, i capelli. Quando il telefono le fece rimbombare il suo martellante suono in testa, riportandola proprio di fronte al suo specchio.
“Pronto, papà!” rispose, cercando di sembrare più rilassata che poteva.
“Ciao tesoro. La mamma mi ha telefonato un quarto d’ora fa, dicendomi che non sei ancora tornata a casa e che oggi non ti sei sentita bene. Dove sei?” le domandò pacato, ma senza nascondere la sua preoccupazione.
La voce sempre calma, piena di sicurezza e autorevolezza del padre riusciva sempre a far mantenere la calma anche a lei. E riuscì a rispondergli in manieri così naturale, che addirittura si sorprese di se stessa.
“Sono a casa, papà. Sono rientrata cinque minuti fa. La mamma dorme già. Sono rimasta a scuola fino a tardi.”
“Ma tesoro! Se non ti sentivi bene, avresti dovuto rimanere addirittura a casa! Perché ti sei anche fermata oltre?” le chiese suo padre, non trovando una spiegazione logica allo strano comportamento della figlia.
“Hai ragione, papà, ma non potevo mancare. Da domani iniziamo le prove generali per il balletto a teatro e io non mi sentivo molto sicura in alcune sequenze della coreografia. Sai com’è, non è opportuno presentarsi alle prove generali a teatro con alcune insicurezze sulla coreografia. Anche se non mi sentivo bene, ho dovuto stringere i denti e fare il mio dovere. Avrei solo penalizzato tutta la compagnia, se fossi rimasta a casa”, gli spiegò tranquilla, ammettendo solo in parte la verità.
“Sei davvero un ragazza in gamba e responsabile, figlia mia. Sono fiero di te. Però, mi preoccupa il fatto che non ti sia sentita bene bene. Che cos’hai avuto?” perseverò suo padre.
“Niente di grave, papà, stai tranquillo! Ieri notte non ho dormito bene, ho vomitato e oggi ho accusato sempre un po’ di nausea, debolezza e malessere generale. Ma mi sento già meglio.”
“Non avrai mica preso i mezzi pubblici per tonare a casa, in quelle condizioni?” si agitò.
“No, papà. Emile mi ha gentilmente offerto un passaggio e mi ha portata a mangiare un boccone al ristorante”, raccontò.
“Benedetto ragazzo! Meno male che c’era quel bravo figliolo! Senti ma... E’ un ottimo partito e si vede che ti vuole bene... Proprio non ti piace?” buttò lì suo padre, nella speranza di ricevere una risposta diversa da quella che la figlia sempre gli rifilava.
Dalla bocca di Elizabeth uscì un risolino divertito e si incurvò teneramente verso l’alto. “No, papà. Mi piace, ma non in quel senso. Hai ragione, è veramente un bravissimo ragazzo. E’ gentile, educato, rispettoso...”
“E anche di ottima famiglia! Il che non guasta!” la interruppe, riflessivo.
“Lo so, papà. Ma a me non piace.”
“E perché? Eppure rappresenta l’ideale di cavaliere che tu hai sempre cercato.”
“Lo so, papà, ma io non sento niente per lui, niente al di fuori di un tenero sentimento di amicizia.”
“Con questi sentimenti, Elizabeth! Ci sono tante altre cose da prendere in considerazione prima! Bisogna valutare la persona! Vedere se è un bravo ragazzo, educato e di ottima famiglia. Emile le ha tutte queste qualità!” le spiegò paziente suo padre. Per l’ennesima volta.
“Ma papà, allora vorresti dire che tu e la mamma...”
“Io ho prima valutato la persona che era tua madre. Poi mi sono innamorato. Solo dopo aver preso in considerazione le caratteristiche che ti ho appena detto.”
Elizabeth rimase leggermente sconcertata e davvero poco convinta su ciò che affermava il padre. Anzi, non era convinta per niente. Al contrario di lui, Elizabeth era una persona davvero romantica, che credeva alle fiabe e al principe che porta via la sua bella sul cavallo bianco.
“E pensare che la mamma mi ha detto di aver perso la testa per te, fin dal primo momento in cui ti ha visto, papà!” gli raccontò con gli occhi sognanti, la romanticona!
“Bah, sciocchezze! Ricorda i sentimenti vengono sempre dopo!”
“Ma no, papà! Io credo che invece dovrebbero venire per primi. Mi piace credere all’idea del colpo di fulmine, dell’amore a prima vista”, buttò lì, come per giustificare per l’ennesima volta a se stessa il suo gesto sconsiderato e incosciente verso quel cantante dall’aspetto delinquenziale.
“Baggianate!” la interruppe severo suo padre. “L’amore a prima vista non esiste! E’ solo un mucchio di sciocchezze! E’ un sentimento effimero e superficiale! Ricorda le mie parole Elizabeth: non ci si può mai innamorare di un delinquente, né di una persona malamente. E’ impossibile. Per questo l’amore a prima vista non esiste!”
“Non sono d’accordo con te papà, ma ti prometto che a mente più lucida ci rifletterò bene”, tagliò corto dolcemente Elizabeth.
“Brava. Ora ti lascio dormire, è tardi.”
“Ma papà, tu quando torni? Pensavo che stessi già dormendo con la mamma!”
“Lascia perdere, Elizabeth, non toccare questo tasto!” si alterò, alzando gli occhi al cielo dall’esasperazione. “Ah, ho capito, sei ancora lì al lavoro per un contrattempo. Allora ti lascio lavorare. Ah, papà! Domani mattina potrei ancora trascinarmi dietro le spaventose occhiaie di oggi, quindi non farci caso e non ti preoccupare se mi vedi un po’ disastrata! Sono solo i postumi del mio malessere odierno”, gli spiegò così da evitare altre domande, che avrebbero potuto metterla in difficoltà.
“Grazie, Elizabeth. Sei sempre premurosa!”
“Anche tu papà. Grazie per la telefonata. Buonanotte.”
Elizabeth chiuse la chiamata e rimase davanti allo specchio a fissarsi ancora per un po’, con la speranza che di veder riflessa una persona migliore rispetto a ciò che sapeva di essere. Ma nulla da fare. Tutto ciò che vedeva era una ragazza facile, che si era fatta sedurre dal primo che passava. E la telefonata con il padre non solo non le era stata di alcun conforto, ma al contrario l’aveva fatta sentire anche peggio. Quando lei gli aveva parlato del colpo di fulmine e dell’amore a prima vista, chissà perché le era venuto in mente quel ragazzo, quel cantante sconosciuto, ma così affascinante e magnetico, da averla fatta cedere al primo incontro, quel ragazzo per cui lei era semplicemente e solo stata una delle tante, uno svago, un trofeo. Era come se cercasse inconsciamente un conforto dal padre per giustificare a se stessa ciò che aveva fatto, ma... Come poteva sperare nella sensibilità di un uomo come suo padre? Un padre straordinario, certo! Un padre, che era stato sempre presente nella vita della figlia, un padre amorevole, che l’aveva sempre seguita in tutto, un padre con il quale lei stava davvero volentieri, ma un padre, purtroppo, per nulla sensibile. Era un uomo all’antica, tutto d’un pezzo, un uomo nato nell’epoca sbagliata. Egli, infatti, sarebbe stato benissimo in una nobile famiglia medioevale, quando ci si sposava per interesse e i matrimoni erano combinati. Le parole taglienti pronunciate dal padre poco prima le si erano infilzate come coltelli affilati nel cuore, pugnalandola a morte, facendola sentire uno schifo più che mai. Facendola sentire come concime per i campi. Avrebbe dovuto smettere di pensarci, si disse, o sarebbe finita con l’impazzire. Si accoccolò sotto le lenzuola e spense la luce, addormentandosi esausta, stremata dalla fatica della giornata e dal dolore e la vergogna, che le straziavano il cuore.

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